Luca Zanchi, Salamanca 2012
L’intero testo de “L’arte e la sua ombra”[3] si articola
all’interno di un paradigma, o meglio, di una “strategia” apofatica.
Con lucidità vengono tracciate posizioni antitetiche,
antinomie inquadrate nelle rispettive limitazioni, come il confinamento dell’arte
negli stretti confini dell’opera (feticismo) in antitesi con la dissoluzione
dell’arte nell’immediatezza della comunicazione; il maschile in opposizione al
femminile; pop-art contro situazionismo, e così via... A questo punto - senza collocarsi in relazione dialettica
(ovvero senza schierarsi a favore di un’antinomia o di un’altra - “neti neti” - ma senza nemmeno elaborare
una sintesi pacificante), Perniola indica una “terza via” traslando il discorso
a un territorio “altro”, pertinente all’ambito della “differenza”.
Questo spazio “altro” viene arredato da Perniola con
metafore estremamente plastiche, tanto allusive quanto vaghe e sfuggenti: In alternativa allo scontro dualista fra feticismo
mercificato e comunicazione di massa, diurna, immateriale e trasparente, viene proposto
il concetto di “ombra”, margine
oscuro ed enigmatico che si sottrae allo sguardo indagatore che vorrebbe
esplicitare l’arte fino a farne una parafrasi. Proprio come l’ombra, che
dinamicamente si sposta collocandosi all’opposto del raggio di luce che investe
l’oggetto, anche l’arte nasconderebbe nell’oscurità il suo “ubi consistam”, il
proprio nucleo costitutivo.
In alternativa all’antinomia di maschile e femminile
viene proposto un “neutro” che non è
sintesi, bensì infinita declinabilità di alternative di genere.
Fra il considerare l’arte come oggetto di consumo, e il
risolvere l’arte nella comunicazione, si propone l’idea di “resto” come vestigia, baluardo della differenza, come resistenza
irriducibile.
E infine dinnanzi al lutto per la morte della
trascendenza, e al conseguente nichilismo culturale, fra due alternative - la
deriva malinconica, oppure il reinvestimento in un nuovo oggetto (ovvero in
questo caso la rifondazione del trascendente), viene indicata una terza
possibilità nell’“incorporazione
criptica”.
Associare questo testo di Perniola, così critico rispetto
a qualunque spiritualismo sublimato, alla teologia negativa è indubbiamente
provocatorio, eppure lo stesso Foucault, tracciando la genealogia di un
“Pensiero del Fuori”[4] traccia
una linea che dalla teologia negativa dello Pseudo Dionigi, passando per la
sconsacrazione di De Sade, l’epifanizzazione scenica di Artaud, giunge a
Batalle, Klossowski, Blanchot.
E dopotutto lo stesso Perniola nel capitolo “L’arte e il
resto” chiama in causa proprio la religione quando attribuisce a Debord un “moralismo anti-estetico e iconoclastico,
le cui origini risalgono alla Riforma”[5],
affermando che “In Debord resterebbe vivo e operante l’orientamento
antiestetico e antimondano della rivoluzione religiosa del XVI secolo”…(aggiungerà
più avanti che Debord è totalmente concentrato sul conflitto presente, nella
totale assenza di un’utopia futura).
Come scrive Miriam Mirolla a proposito del Situazionismo,
“In un rapporto del 1961, approvato all’unanimità alla V Conferenza
dell’Internazionale Situazionista, si sancisce che: ‘Nel mondo capitalista la vita è organizzata in modo spettacolare… Si
tratta di non elaborare lo spettacolo del rifiuto, ma rifiutare lo spettacolo
[…] dunque gli elementi distruttivi di questo spettacolo non devono più essere
opere d’arte. Una volta per tutte, non vi è situazionismo, né opere d’arte
situazioniste’. Da questo momento in poi, il Situazionismo offrirà al mondo soltanto la sua programmatica
sparizione anti-spettacolare” [6].
Non dovrebbe quindi stupire che Perniola, erede del Situazionismo
e reduce del suo naufragio nel silenzio, assistendo al trionfo spettacolare
dell’immagine mercificata dell’incipiente era post-media[7],
debba divincolarsi fra diverse esigenze: muovere una doverosa critica alla
mercificazione feticista e capitalista della società dello spettacolo, e al
contempo riformulare alcune posizioni situazioniste evitando di cadere nello
stesso moralismo iconoclasta. Sottrarsi
agli effetti nichilisti e malinconici della “morte di Dio”, senza tuttavia
proclamarne una risurrezione.
Preso fra queste opposte esigenze l’autore di “L’arte e
la sua ombra” cerca uno spazio eterotopico[8] in
metafore e categorie (la cripta, il
neutro, l’ombra, etc.) che gli consentano un recupero se non proprio della
trascendenza, quantomeno di un margine di trascendentalità, e di criticare la
diarrea iconica post-mediatica, senza
tuttavia giungere a un aniconismo radicale - consentendo la sopravvivenza
di un resto, un’eccedenza enigmatica, in cui custodire il nucleo vitale
dell’arte.
In questo senso, pur non essendovi religiosità esplicita
in Perniola, il paradigma apofatico sembra in lui traslato e applicato a
salvaguardia non più del Divino o dell’Assoluto, bensì di un nocciolo vitale,
ineffabile, irriducibilmente trasgressivo, che sarebbe pietra fondante
dell’arte e della filosofia, proprio come le immense cattedrali gotiche, fatte
di vetro e di luce, poggiano su oscure cripte che custodiscono antichi tesori
reliquari…
Questa scintilla di vitalità sarebbe il “tesoro” che si vorrebbe mettere al sicuro tanto dallo sguardo parafrasante (profanatore!) della comunicazione di massa, quanto dalla mano concupiscente del feticista.
*
La metafora dell’incorporazione
criptica[9]
In diversi momenti del testo Perniola ribadisce
l’intersezione di arte e filosofia nell’occuparsi dell’eccedenza, del resto, e
della differenza. Tanto l’artista quanto
il filosofo risponderebbero a un imperativo di eccezionalità, apportando un contributo trasgressivo ai
sistemi in cui operano.
Ciò per l’autore equivale a predicare la propria libertà
di essere artista, al pari di filosofo: di fatto, superata la fase negativa,
del ‘neti neti’, al momento di suggerire la sua proposta alternativa Perniola
non pronuncia una definizione positiva, e non introduce chiari parametri
analitici, ma al contrario elabora metafore che hanno molto di artistico (sono
iconiche, visuali, poetiche, e ampliamente allusive). Metafore come l’ombra e la cripta, più che chiarificare, ordinare,
illuminare, sono categorie fatte per nascondere, confondere, velare.
Il concetto medesimo di critica (e la teoria dell’arte, e
l’estetica, non possono prescindere da un contributo critico) al contrario
imporrebbe un’operazione di krinein,
e quindi di distinzione, che richiederebbe invece un attento procedere
“diurno”. In questo senso cripta e critica sono inconciliabili e di fatto
potremmo attribuire a Perniola un certo grado di astinenza critica - fatta eccezione per la spietata valutazione
delle critica altrui, di movimenti artistici e approcci filosofici pregressi,
al momento di affacciarsi direttamente sul fenomeno artistico, piuttosto che
procedere in senso critico, allora vengono invocate l’ombra e l’oscurità, imponendo una metafora topica che colloca
il fenomeno artistico in una perpetua epochè strutturale.
La giustificazione per il ricorso alla metafora della
cripta giunge a Perniola dalla categoria psicanalitica dell’incorporazione
criptica[10], delineata
originariamente da Freud, sviluppata da Abraham e Torok, e traslata in campo
estetico da Derrida.
Partendo dall’interpretazione dell’attuale crisi del
logos, con i suoi sintomi di cinismo e nichilismo, la cultura occidentale
contemporanea verrebbe trattata come un corpus unico, attuando una analogia (di
per sé sempre discutibile) fra sistema psichico individuale, e macro-sistema
culturale collettivo. A questo punto si adotterebbero metafore nate in un
contesto clinico e psico-patologico, per applicarle a un contesto sociale la
cui presunta crisi è interpretata come malattia.
Nel caso specifico, la deriva dei grandi sistemi e la
perdita della trascendenza, associabili alla metafora nietzschiana della morte
di Dio, verrebbero trattati alla stregua dei sintomi di un lutto irrisolto.
Perniola suggerisce la dinamica dell’incorporazione
criptica come valida alternativa (terza via “differente”) rispetto
all’introiezione e alla malinconia: grazie ad essa un tesoro che brilla
nell’oscurità sopravvivrebbe in gran segreto, installandosi in modo “magico e
istantaneo” nel sistema continuando a operare nell’ombra.
Sarebbe bene sottolineare che nessun testo psicologico
clinico parlerebbe in toni tanto entusiasti e romantici della dinamica
dell’incorporazione criptica additandola come forma di elaborazione del lutto
preferibile alla malinconia, o all’introiezione e al reinvestimento oggettuale.
L’incorporazione costituisce infatti un processo di
scissione di difficile cura, di origine arcaica e quindi particolarmente
resistente all’intervento terapeutico. Diversamente dall’introiezione (che
presuppone una relazione fra un soggetto e un oggetto separati, in cui il
soggetto assume in sé una “parte” della
rappresentazione dell’oggetto), l’incorporazione agisce prima e al di fuori del processo di simbolizzazione (in questo
senso è arcaica, e per dirla come Perniola stesso, riprendendo Lacan, è “idiota” in quanto non mediata
dall’elemento simbolico), e assume in sé l’oggetto nella sua totalità, acriticamente (ovvero senza operare un
discernimento critico)[11].
Infine l’incorporazione rappresenta una forma di
“incistamento” patologico così refrattario al cambiamento, da estendersi oltre
il soggetto singolo fino a ripercuotersi a livello famigliare sulle generazioni
successive, arrivando a costituire una delle principali vie di trasmissione
transgenerazionale della sofferenza psichica[12].
*
I vampiri dell’arte
In questa trasposizione linguistica operata da Perniola
sulla scia di Derrida è legittimo accettare un margine di modificazione
semantica dei termini, per cui ciò che in contesto psicanalitico pertiene a una
dimensione inequivocabilmente patologica, può essere in contesto estetico
connotato positivamente, e accantonando l’ortodossia filologica possiamo
valutare la proposta di Perniola immaginandone le possibili implicazioni.
Il concetto medesimo di una possibile attuabilità
dell’epochè è di per sé radicalmente discutibile[13],
applicato poi al sistema artistico, l’atto di collocare l’arte nell’ombra dell’indicibile fornisce ottime premesse
per restaurare, volenti o nolenti, il mito di un “senso artistico”,
attitudine innata nel critico quanto nell’artista a captare o esprimere il
sublime, divenendo custodi auto-proclamati di un’idea di arte mai realmente dichiarata
e discussa.
Inevitabilmente tanto il sistema dell’arte quanto quello
artistico, operano scelte drastiche in termini di esclusione o integrazione, concedendo
o negando sostegno economico, accademico, mediatico, decretando notorietà
oppure invisibilità e oblio, elogiando e premiando o stroncando. Il fatto che
simili operazioni non abbiano un orizzonte critico di riferimento per operare la propria cernita non può che esporre l’arte all’assolutismo arbitrario e
volubile dei singoli, e all’opportunismo speculativo del mercato.
Se da una parte possiamo apprezzare il nobile silenzio
del mistico, che tace se non per decostruire apofaticamente le certezze altrui,
dall’altra fintanto che si decide di rimanere nel mondo secolare, e
fintanto che si continuano a scrivere libri rivestendo cariche accademiche e
occupando uno spazio nella cultura, allora una tensione analitica mi sembra
indispensabile e doverosa.
La strategia di porre l’arte (e la filosofia) in uno
spazio interno al sistema, e tuttavia irriducibilmente “altro”, capace di coesistere senza
integrarsi, risponde allo scarso interesse di Perniola per una dialettica
conciliatoria del conflitto, e di conseguenza l’installazione di un rifugio
criptico nelle profondità oscure del sistema culturale sarebbe un buon modo per
ribadire, mutatis mutandis, l’autonomia autoreferenziale dell’arte (autonomia e
autarchia sarebbero appunto prerogative dell’unità criptica frutto del processo
psicologico di incorporazione).
Eppure, malgrado la puntigliosità di tutte le
osservazioni finora mosse, se ci risolviamo ad accordare a Perniola lo status
di artista (o di mistico…), non possiamo che provare simpatia per il suo desiderio
“carbonaro”[14] di una “resistenza artistica” che in un’epoca
quasi “post-atomica” (o semplicemente post-media) sopravviva rifiutando i
compromessi dell’integrazione, aspettando, tramando nell’ombra, custodita da
scaltri criptofori, guardiani di tombe di non-morti, pronti tanto a guidarci al
cuore dell’esperienza estetica, come a dirottarci qualora giungiamo dotati di
domande indiscrete, troppo dirette, o troppo diurne per i vampiri dell’arte.
[1] Neti neti è una formula induista, appartenente all’Upanishad, “né questo né
quello”, a indicare che Brahman, l’essenza spirituale su cui si fonda
l’esistente è al di là di qualunque definizione.
(Latino) «
Quid ergo dicamus, fratres, de Deo? Si
enim quod vis dicere, si cepisti, non est Deus: si comprehendere potuisti,
aliud pro Deo comprehendisti. Si quasi comprehendere potuisti, cogitatione tua
te decepisti. Hoc ergo non est, si comprehendisti: si autem hoc est, non
comprehendisti. Quid ergo vis loqui, quod comprehendere non potuisti?»
(Italiano)« Cosa potremo dunque dire di Dio? Poiché se tu dichiari di poterne dare una definizione, quella non sarebbe la definizione di Dio. Se tu dichiari di aver compreso cosa Dio sia, ciò significa che tu hai compreso qualcosa di diverso e che non è Dio. Se tu dichiari di averlo compreso con il pensiero, ciò significa che con tale pensiero hai voluto ingannarti. Ciò, quindi, non è Dio, se dichiari di averlo compreso. E se lo è, allora non puoi averlo davvero compreso. Perché dunque vuoi parlare di ciò che non hai potuto comprendere? »
[3] Cfr. Perniola, M., Einaudi, Torino 2000
[4] Cfr. Foucault, M., Il pensiero del Fuori, ediz. SE, 2008, Milano
(Italiano)« Cosa potremo dunque dire di Dio? Poiché se tu dichiari di poterne dare una definizione, quella non sarebbe la definizione di Dio. Se tu dichiari di aver compreso cosa Dio sia, ciò significa che tu hai compreso qualcosa di diverso e che non è Dio. Se tu dichiari di averlo compreso con il pensiero, ciò significa che con tale pensiero hai voluto ingannarti. Ciò, quindi, non è Dio, se dichiari di averlo compreso. E se lo è, allora non puoi averlo davvero compreso. Perché dunque vuoi parlare di ciò che non hai potuto comprendere? »
[3] Cfr. Perniola, M., Einaudi, Torino 2000
[4] Cfr. Foucault, M., Il pensiero del Fuori, ediz. SE, 2008, Milano
[8] riferimento a Foucault è mio e non di Perniola, dal momento che Foucault non
è mai menzionato in quest’opera e nessun
riferimento bibliografico vi viene riportato.
criptico: [crìp-ti-co]
aggettivo (pl. crìptici) misterioso, dal significato nascosto: Esempio: una
frase criptica Sinonimi: oscuro. cfr. http://www.wordreference.com/definizione/criptico
[10] Crf. N.
Abraham e M. Torok, La scorza e il nocciolo, Borla, Roma 1993 e Freud, S., Lutto
e malinconia, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1967
[11] Cfr. Romeo Lucioni - L’identificazione, http://www.adhikara.com/edizioni-hualfin/volume-1-2/identifi.pdf
[12] Cfr. Sarantis Thanopolus (Psicoanalista AFT
S.P.I, I.P.A.), La matrice transgenerazionale del disagio psichico,
Conferenza Di
Presentazione Della Associazione Psicopatologie Contemporanee “Il Corpo
Specchio”, Verona 21 Aprile 2012 http://www.fidadisturbialimentari.com/corpospecchio/senza-categoria/la-matrice-transgenerazionale-del-disagio-psichico/
[13] Sulla scia di Gadamer e dell’ermeneutica ritengo impossibile prescindere da un articolato apparato che costella la precomprensione con cui ci si avvicina al fenomeno ( Cfr. Gadamer, Verità e metodo)
[13] Sulla scia di Gadamer e dell’ermeneutica ritengo impossibile prescindere da un articolato apparato che costella la precomprensione con cui ci si avvicina al fenomeno ( Cfr. Gadamer, Verità e metodo)
[14] La Carboneria è stata una società segreta
italiana fondata a Napoli durante i primi anni dell’Ottocento su valori
patriottici e liberali. Le riunioni dei gruppi avvenivano in sotterranei e
ambienti oscuri.
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