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mercoledì 21 settembre 2011

Viviana Meschesi, Sistema e trasgressione. Logica e analogia in F. Rosenzweig, W. Benjamin ed E. Levinas. Mimesis, 2010

a cura di Luca Zanchi



Quando il bambino era bambino era l’epoca di queste domande: “Perché io sono io, e non sei tu? Perché sono qui e perché non sono lì? Quando comincia il tempo e dove finisce lo spazio? La vita sotto il sole è forse solo un sogno? Non è solo l’apparenza di un mondo davanti al mondo, quello che sento vedo e odoro? C’è veramente il male e gente veramente cattiva? Come può essere che io che sono io non c’ero prima di diventare? E che una volta io che sono io non sarò più quello che sono?” P.Handke, da Lied Vom Kindsein[1]
Anche il pensiero possiede una sua infanzia dotata di un proprio linguaggio. “Bambino” è quel pensiero che si affaccia su ciò che è nuovo, trasgredendo la consuetudine di ciò che è già noto: in tal caso l’intero sistema linguistico si serve di quei termini di cui già dispone per sporgersi sull’“oltre”. Allora l’analogia, la metafora, si fanno veicolo privilegiato nel traghettare una neonata scienza verso nuove frontiere dello scibile. Non deve quindi stupire che in tali frangenti arte, scienza, poetica e metodo, logica e analogia, si intreccino in modo inscindibile. Né sorprenderà che Empedocle agli albori delle scienze naturali definisca il mare “sudore della terra”, o che nel Corpus Hippocraticum la nascente scienza medica si nutra profusamente di metafore poetiche.
Eppure le scienze, la medicina, la filosofia, la psicologia, e persino l’arte, una volta giunte in possesso di un “vocabolario” specifico, spesso tendono a rimuovere tale origine poetica, un’infanzia metaforica, analogica, che solo da uno sguardo miope potrebbe essere relegata a una dimensione esclusivamente arcaica. A ben vedere infatti qualunque movimento di espansione epistemica dovrà intraprendere operazioni di tipo analogico.
Questa è una delle importanti premesse introdotte da Viviana Meschesi in “Sistema e Trasgressione. Logica e Analogia in F. Rosenzweig, W. Benjamin ed E. Levinas”, ed. Mimesis, 2010.
Posta dunque l’impossibilità per le scienze di prescindere dall’uso di metafore, l’autrice ci conduce attraverso il pensiero di questi tre filosofi ebrei accomunati dalla condizione di outsiders culturali, e da una tradizione linguistica avvezza a ribadire il proprio scarto ontologico rispetto al Vero, affacciandoci così sulla stimolante possibilità di una “metafora nomade”, ovvero un uso dell’analogia che sappia bilanciare la propria tensione veritativa con una viva consapevolezza di non essere che un’opera di allusione, di avvicinamento, a qualcosa che rimane irriducibilmente Oltre e al di là del detto.
Una simile impostazione filosofica riesce a riattivare le polarità di un pensiero “forte” (immanenza e trascendenza, pensiero ed essere, soggetto e oggetto, uomo e Dio), senza tuttavia permettere che tale recupero del trascendente dia luogo a sua volta alla cristallizzazione di rappresentazioni statiche, collocando piuttosto il linguaggio in un ambito dinamico ed evolutivo, senza risolverne i limiti nella metafisica.
Una volta operata l’ardita scelta di dimorare nel nomadismo di un pensiero che sa di non poter impugnare alcun ottenimento definitivo, la ricompensa epistemica risiederebbe nella costruzione di sistemi di pensiero in grado di riformularsi costantemente, capaci di accettare le richieste adattive avanzate dall’esperienza, accogliendone il contributo trasgressivo.
E’ interessante allora come l’approccio qui accennato, dopo aver affrancato l’analogia dal pregiudizio di essere mera modalità arcaica di approssimazione linguistica, sia in grado di scardinare anche un altro preconcetto, ovvero quello che la metafora sia statica “raffigurazione” di coordinate trascendenti.
A tale pregiudizio sarebbe forse imputabile l’odierna reticenza linguistica (e non solo) di molti critici d’arte, curatori e artisti contemporanei, a utilizzare il verbo “rappresentare”, adottando piuttosto la parola “presentare”, nel descrivere l’operazione artistica, tacendone così la natura metaforica. L’esigenza che si cela dietro tale scelta linguistica è in realtà quella di prendere le distanze non tanto dalla metafora e dall’analogia in toto, quanto piuttosto dal concetto classico di raffigurazione, e dalle coordinate filosofiche e religiose che per secoli hanno dato fondamento a un’opera di figurazione che spesso si è attenuta a una mimesis celebrativa del sistema, anziché esserne stimolo trasgressivo.
Eppure la rappresentazione, e quindi l’analogia, ha ben altre potenzialità. Senza scivolare nella provocazione fine a se stessa, la metafora nomade che non girovaga a vuoto, né smarrisce la propria tensione originaria perdendosi nel gioco, ci consegna a un significato forse più autentico e dinamico della parola trasgressione, che è quel “passare attraverso, e oltre” del verbo latino trans-gredior che ne è la radice etimologica. Parliamo quindi di un nomadismo che non è casuale ma vettorializzato, animato dall’urgenza costante di avvicinamento, e tuttavia inabitato dalla consapevolezza della lontananza di una meta che è incommensurabilmente ‘oltre’.
La centralità del problema affrontato in “Sistema e Trasgressione” trova pertanto applicazione e risonanza in campo non solo filosofico, ma estetico (inquadrando l’operazione artistica in un ambito analogico e interrogandola sul ruolo assegnato al significante), indicandoci una via che senza indugiare nel debolismo postmoderno, né ambire alla restaurazione di un pensiero forte, riesce a coniugare la trascendenza e il dinamismo evolutivo richiesto dalla contemporaneità, in un atteggiamento epistemico di inquieta tensione, e di fondamentale umiltà conoscitiva (l’accettazione dello scarto strutturale fra pensiero ed essere). Lo spazio accordato a tale scarto trasgressivo, è anche spazio di apertura alla sperimentazione, alla crescita, e all’alterità.



[1] Il Cielo sopra Berlino - W.Wenders (1987)
PUBBLICATO IL : 19-09-2011 su http://www.giornaledifilosofia.net/public/scheda_rec.php?id=165

venerdì 16 settembre 2011

FALL-OUT E RITORNO





Che colore ha lo iodio radioattivo? Che sapore ha l’americio? Quanto è lontana la Bielorussia? Sono domande semplici nella loro formulazione, domande che potremmo immaginare facilmente in bocca a un bambino che abbia assistito al telegiornale assieme ai genitori e stia tentando di rappresentarsi il racconto di qualcosa di estremamente insidioso, e allo stesso tempo immateriale, apparentemente lontano.
Ma sarebbero domande imbarazzanti per la maggior parte degli adulti, per quanto istruiti. Perché spesso neanche loro sanno realmente di cosa si tratta, o perché non sanno a quali metafore, a quali analogie ricorrere per rendere più accessibile qualcosa di così remoto.
Distante, per molti versi ignoto, è infatti ciò che accadde a suo tempo a Chernobyl, e più recentemente a Fukushima. I fenomeni fisico-chimici che si sono abbattuti catastroficamente su questi luoghi ne hanno fatto laboratori a cielo aperto dell’imprevedibile. Pertanto perfino il linguaggio tecnico degli addetti ai lavori deve arrancare per dare un nome a ciò che è accaduto e che continua ad accadere. Ma oltre a essere difficile dar nomi alle cose, ancor più difficile è collocarle in uno spazio e in un tempo.
Quando è accaduto il disastro di Chernobyl? Nel 1986? Ma se la forbice più ampia dell’impatto sulla salute umana deve ancora manifestare le sue tragiche conseguenze, quando annunciare il disastro? Quando piangerne le vittime? Quando far partire i nostri treni della solidarietà? E il disastro è davvero relegato a Chernobyl oppure l’Europa intera ha subito l’impatto epidemiologico di patologie connesse alla fuga radioattiva?
Insomma, l’avanguardia tecnica ha partorito un fenomeno talmente inedito da precorrere e superare la capacità di rappresentazione delle culture che l’hanno generato, mettendo in crisi le consuete categorie di spazio, tempo, misurabilità.

Immagine tratta dal documentario Fall-Out, di Daria De Benedetti

E anche quando intellettualmente vi fosse una comprensione scientifica, razionale, la capacità di relazionarsi affettivamente a tali realtà non era all’epoca della costruzione di molte centrali, e tuttora continua a non essere, pronta per concepire il rischio di rendere inabitabile per millenni un territorio. Come rappresentarsi un tempo così lungo? Come sentire una sincera preoccupazione per generazioni così lontane? Come amare pro-pronipoti che mai conosceremo e che a loro volta non ricorderanno il nostro nome? Quanti di noi saprebbero realmente “amare” un ecosistema?
Serve un lavoro culturale, linguistico, di educazione alla rappresentazione intellettuale ed emotiva di concetti estremamente astratti, o ramificati nello spazio e nel tempo, che tutt’ora è solo agli albori. Un lavoro che indubbiamente non rientra nelle urgenze, di natura più prosaicamente economica, degli enti che promuovono la costruzione di centrali nucleari.
Ammesso che si possa costruire una centrale nucleare dotata di meccanismi di sicurezza, tali meccanismi sono “sicuri” solo in circostanze ordinarie (e tuttavia Chernobyl ebbe comunque un malfunzionamento nell’ambito di circostanze ordinarie, per quanto l’ingegnere che la costruì avesse dichiarato che potesse in tutta sicurezza essere collocata nella Piazza Rossa)
Ma è importante dire e sottolineare che non esiste e non esisterà mai una centrale nucleare sicura da eventi “straordinari” (e Fukushima, esposta a uno Tsunami e a una serie di incredibili scosse telluriche, collassò proprio in imprevedibili circostanze straordinarie).
Un cataclisma naturale, o l’atto insensato di un folle, una guerra, o un attentato terroristico, fanno parte dell’imprevedibile da mettere in conto per ammettere una volta per tutte che non vi è sicurezza alcuna nel nucleare.
E’ ragionevole quindi affermare che se il problema della contaminazione da radioattività è un problema fisico, chimico, il problema dei disastri nucleari nel loro aspetto socio-politico e psicologico è fondamentalmente un problema di comunicazione e informazione.
Le popolazioni limitrofe alle centrali non sanno fino in fondo a cosa sono esposte, non sono avvertite per tempo quando l’irreparabile è già accaduto, e infine non sanno di non essere in alcun modo tutelate economicamente per i possibili danni (dal momento che praticamente nessuna economia mondiale è in grado di sobbarcarsi una forbice di danni alla salute che continuerà a crescere esponenzialmente per decenni e decenni).
La solidarietà internazionale poi presto o tardi distoglie la propria attenzione, distratta dalla nuova guerra, dal nuovo terremoto, dalla nuova crisi economica, dimenticandosi di interi mondi familiari cancellati in un giorno, destinati a disintegrarsi nel loro esilio forzato.
La filosofia contemporanea, in particolare nel dibattito nato negli anni Settanta in seno ad una rivalutazione della filosofia pratica che si riconosce nella possibilità di un recupero “forte” della razionalità in etica, ha posto interessanti questioni al riguardo.
“Agisci in modo tale che gli effetti della tua azione siano compatibili con la continuazione di una vita autenticamente umana”. Questa celeberrima citazione, che parafrasa la massima kantiana, è come è noto, contenuta nel saggio del '79 “Principio responsabilità” di Hans Jonas. Jonas, filosofo ebreo, prende le mosse dalla valutazione dell' “esagerazione tecnica” rappresentata dall'idea del progresso illimitato e contestualmente della passiva disponibilità alla manipolazione della natura.
Se è vero che la separazione tra uomo e natura caratterizza il pensiero occidentale, per Jonas una vera e propria “euristica della paura” rispetto a presunti scenari disastrosi legati all'ambiente, porterebbe alla messa in opera di una “responsabilità” etico-ontologica nei confronti dell'essere stesso dell'umanità, non più disposta a calcolare ottimisticamente le conseguenze (non più valutabili a breve termine) della tecnica, ma  al contrario dando sempre più credito alle previsioni cattive.
Tali contributi, che molto hanno stimolato e condizionato il dibattito culturale e che prendono come oggetto di riflessione proprio quel concetto di  tecnica che Heidegger – nella sua suggestiva e  “sommaria” interpretazione che identifica l'intera  storia d'Occidente come storia della metafisica -  considera la manifestazione del progressivo oblio dell'essere che ha reso l'ente oggettività calcolabile, sono l'irrinunciabile punto di partenza per una riflessione sulla possibilità di “e-duca-zione”al futuro.
Un'educazione al futuro deve tener ben ferma la considerazione che l'immaginare le conseguenze di un'azione sull'ente- natura richiede dei  nuovi linguaggi.
La difficoltà di narrare l’evento, l’impensabilità dell’accaduto, lo sradicamento forzoso dal proprio contesto sociale, territoriale, culturale, la propensione collettiva all’oblio, la comune tendenza dei governi a insabbiare, nascondere, minimizzare, e in ultima analisi a censurare - sono tutti fattori che concorrono tanto a livello individuale, quanto a livello collettivo, a favorire l’insorgenza del trauma psicologico grave, con tutta la sofferenza psichica supplementare che il trauma aggiunge al dolore, al lutto, alla povertà e alla malattia.
E’ per questo che l’operazione estetico-linguistica di un reporter, di un fotografo e di un giornalista sono in quest’ambito di vitale importanza, proprio perché in grado di forgiare ponti linguistici che ci aiutino a dar forma a rischi, visualizzare danni, e non ultimo, a colmare una distanza che non è solo fisica e culturale, ma psicologica.
Il reportage realizzato da Daria de Benedetti, con tutte le difficoltà di una coraggiosa autoproduzione e un’ancor più coraggiosa esperienza “in loco”, rappresenta un valido contributo alla costruzione di una cultura della solidarietà e dell’empatia.
Meritevole di aver saputo ascoltare voci e storie che, sei anni prima che Fukushima ce ne rinnovasse il ricordo, giacevano ancor più inascoltate di quanto non lo siano ora, e di aver rischiato la propria salute oltrepassando una frontiera comunemente interdetta allo sguardo dei media.

Immagine tratta dal documentario Fall-Out, di Daria De Benedetti

Il concetto di Fall-out (straripamento, fuoriuscita), presente nel titolo del reportage, sintetizza perfettamente la natura di un fenomeno che travalica i confini geografici, eccede le capacità linguistiche, superando ogni possibile tentativo di contenimento non solo fisico, ma anche e soprattutto mentale.
L’operazione intrapresa da Daria De Benedetti si è strutturata a sua volta a partire da una trasgressione di tipo inverso e contrario, all’insegna di un attraversamento degli stessi confini, delle stesse zone interdette, in un percorso a ritroso che conduce all’epicentro di una rimozione collettiva.
Ed è questo un sentiero che inizia a partire dall’apertura esperienziale dell’autrice a una relazione umana diretta, empatica, e personale. 


a cura di Luca Zanchi e Viviana Meschesi


IL KITSCH DEL DIONISIACO

- da Woodstock a Lady Gaga passando per il massacro di Charles Manson

Anche il così detto “spirito dionisiaco” si è rivelato storicamente passibile di una edulcorazione kitsch ad opera della cultura pop. L’archetipo di Dioniso e del suo festoso corteo di baccanti è presto chiamato in causa per interpretare fenomeni quali il concerto rock, il rock festival, l’isteria collettiva e il delirio della folla dinnanzi all’epifania dell’icona rock. Tuttavia quando la stessa icona dionisiaca attiva dinamiche iconoclaste, violente, in alcuni casi in tutto e per tutto sacrificali, la cultura pop mette in scena un certo sbigottimento, una ingenuità kitsch che sembra frutto di una rimozione puntuale di alcuni aspetti che sono invece intimamente connessi al dionisiaco.
Comunemente quando si indagano le origini della Tragedia per carpirne più a fondo l’essenza, allora si finisce inevitabilmente per incontrare la misteriosa figura di Dioniso e dei suoi rituali. A livello iconografico è senz’altro il corteo bacchico contrassegnato dall’ebbrezza divina delle sue Menadi a imprimersi nel nostro immaginario, sicché non deve sorprendere che Dioniso abbia finito per essere concepito prevalentemente in relazione a questa prerogativa, quella appunto dell’ebbrezza.
Tuttavia ciò che comunemente si trascura di ricordare è che i passi danzanti del corteo bacchico si affrettavano immancabilmente allo “sparagmòs”, cioè al dilaniamento selvaggio di una vittima umana o animale che – viva – veniva smembrata per poi essere divorata (pratica chiamata “omofagia”). E’ tenendo conto di questa realtà che Rene Girard scrive “[…]non è possibile dubbio di sorta: Dioniso è il dio del linciaggio ben riuscito”[1].
I primi concerti da stadio dei Beatles, i più selvaggi concerti dei Doors, i rock festivals di Woodstock e dell’isola di Wight, con i loro sacerdoti e sacerdotesse - dai più eterei Mamas and Papas, Joni Mitchell, ai più carnali Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim Morrison, officiarono i pubblici rituali collettivi che consacrarono la mitica (e fugace) summer of love del 1969.


Primavera 1969, Woodstock, Jimi Hendrix

Il massacro di Charles Manson ne sarà la conclusione sacrificale ed efferata. Una donna incinta, moglie di Roman Polanski, assieme agli altri invitati di una festa sarà massacrata a coltellate da un gruppo di “baccanti” drogate e devote al loro personale Dioniso (Charlie).
 
Charles Manson
 
Sharon Tate morta, scena del crimine, 9 Agosto 1969
 
E non vi è nulla di più kitsch del comune stupore che ciò suscitò nello starsystem hollywoodiano - bisogna essere infatti notevolmente ingenui, o kitsch, per pensare che spalancando le porte alle pulsioni più profonde, con l'aiuto di robuste dosi di droga e alcol, si sarebbe incontrato solo Eros e non la sua controparte, Thanatos.
La cultura pop seppe però diluire e addomesticare anche questo fenomeno. La creazione di icone pop\rock, e il loro pubblico declino divennero prodotto di un mercato che continua a offrire al pubblico lo spettacolo iconofilo della creazione della Star, e spesso, quasi sempre, anche il sadico spettacolo iconoclasta del disfacimento dell’icona (libri scandalistici ne deturpano per sempre lo splendore, come nel caso di Joan Crawford, oppure la droga, l’aids, la malattia mentale o il suicidio ne stroncano prematuramente la giovane vita). E puntualmente, quando la parabola sacrificale si conclude, ne deriva una catarsi che produce il mito- l’eroe, il martire, nella dinamica sacrificale del capro espiatorio, dopo essere stato caricato di ogni male, espiando per la collettività, diviene sacro, diviene santo- e una volta morto può divenire feticcio.
La factory di Warhol, e in generale la pop art (sbarcata alla biennale di Venezia già dal 1964), espliciteranno (o sfrutteranno?) questa dinamica sfornando icone pop, vive o morte, persone oppure oggetti, che possono essere l’icona della coca cola, della zuppa Campbell, al pari della bocca stampata in serie di un Marylin Monroe già morta…L’icona è un fenomeno a uso e consumo dello spettatore, anzi, del consumatore, e davvero poco importa che sia viva.


Andy Warhol, Ultra Violet, Viva
Negli ultimi anni la vita sessuale di Lady Diana, la presunta pedofilia e infine la morte di Michael Jackson, la tossicodipendenza di Whitney Huston, gli abusi di stupefacenti e i problemi legali di Courtney Love, i soggiorni nelle cliniche di disintossicazione delle ex lolite Britney Spears e Lindsay Lohan, sono solo alcuni degli esempi di omofagia del dio, di cannibalismo mediatico di divi, di reality show del collasso vip.
Interessante in quest’ottica si rivela la consapevolezza dell’ennesima super star di questi giorni, Lady Gaga.
Bionda come Britney, Paris, e Lindsay, altrettanto generosa della propria nudità, ancor più giovane, eppure a differenza loro, sembra pienamente in controllo dell’edificazione della propria icona: compone la propria musica, confeziona i propri vestiti, cura le proprie coreografie, e rilascia interviste condite di citazioni colte e di consapevolezza artistica.
Per sintetizzare quanto detto, paradigmatica fu la performance di Lady Gaga, al momento della sua consacrazione agli MTVMA del 2009: nell’esecuzione del suo hit “Paparazzi” porse al pubblico lo spettacolo del proprio dilaniamento ad opera dei media (impersonati dai ballerini\paparazzi cannibali) culminante nell’ostensione del proprio corpo coperto di sangue (finto) appeso a un gancio come carne da macello. 
 
2009 Lady Gaga, MTVMA, finale della sua performance Paparazzi
Se da un lato la dinamica sacrificale si dimostra tuttora attiva e inalterata, Lady Gaga sembra determinata a manipolarla coscientemente e a palesarla per noi.
In nome di questa consapevolezza, la barocca, ridondante, Lady Gaga potrebbe finire per risultare meno kitsch dei Mamas and Papas e di Joni Mitchell. Andy Warhol di se stessa, Lady Gaga è artefice tanto della propria surreale icona, quanto della sua iconoclastia rituale.
Quale mostro ha partorito la cultura pop???

 
[1]René Girard, La Violenza e il Sacro, Milano, Adelphi,2005.

giovedì 15 settembre 2011

CONTRADDIZIONI ATTIVANTI - IL VALORE DELLA CONTRADDIZIONE IN ARTE E ANTI-ARTE


- a cura di Luca Zanchi in collaborazione con Maria Teresa Medaglia -

‘Quando il nostro cervello viene sottoposto a stimoli di natura contraddittoria l’attività cerebrale risulta maggiore rispetto al processamento  degli stessi stimoli ma non contraddittori. Inoltre, quando un assunto particolare viene contraddetto da un assunto universale la rete cerebrale attivata risulta essere maggiore rispetto a quella attivata quando un assunto universale viene contraddetto da una assunto particolare. La rete cerebrale coinvolta nel processo di individuazione della contraddizione è quella temporo-parietale e frontale, deputata all’apprendimento e alla valutazione del rischio. Un processo di auto-gratificazione sembra avere luogo quando il compito di individuazione della contraddizione viene portato a termine’[1].
Questo è in sintesi quanto stato scoperto da un gruppo di ricercatori tutti italiani [2] coordinato dal Dott. Camillo Porcaro nelle Università inglesi di Birmingham. 

Accogliere la confutazione nell’elaborazione teorica, propiziare uno spirito critico nel percorso educativo, bilanciare un potere al governo con un’opposizione, includere il contraddittorio in un’informazione pluralista, accordare il diritto di manifestazione e in generale di opinione - tutto questo sembrerebbe un’acquisizione maturata da tempo nella cultura occidentale e in buona parte travasata nel senso comune. Vero è tuttavia che tale “buonsenso” è stato ed è tuttora periodicamente oggetto di assalti culturali e ideologici.
L’importanza allora di una simile ricerca si profila proprio nell’assegnazione di una nuova consistenza scientifica, forte di una misurabilità empirica, a ciò che è da tempo assunto come un valore democratico, filosofico, culturale.
L’equipe coordinata dal Dott. Camillo Porcaro si è rigorosamente attenuta all’ambito specifico del binomio di neuroscienze e logica, registrando e valutando l’attività cerebrale dei soggetti durante lo svolgimento di compiti di ragionamento atti all’individuazione della contraddizione attraverso le tecniche di neuroimaging quali l’elettroencefalografia ad alta densità (hd-EEG) e la risonanza magnetica funzionale (fMRI). Gli stimoli somministrati in sede sperimentale erano quindi tutti di natura logica (brevi frasi chiamate “proposizioni categoriche aristoteliche” contenenti operatori o quantificatori logici quali, ‘Qualche’ e ‘Tutti’ in una relazione di contraddittorietà e di non contraddittorietà). Le medesime tecniche di neuroimaging sarebbero in grado di elaborare la risposta cerebrale anche in presenza di stimoli composti, come ad esempio nel caso di stimoli che includano il colore. Queste tecniche quindi avrebbero le potenzialità per una estensione estetica della ricerca. Tuttavia per  ora l’opera d’arte coinvolgendo una pre-comprensione culturale, e relazionandosi ad un contesto a sua volta carico di connotati culturali, costituisce uno stimolo generatore di processi cerebrali eccessivamente complessi per essere interpretati con altrettanta precisione  per mezzo delle tecniche attualmente disponibili. Ciò però non toglie che quanto già verificato dalle neuroscienze in un “setting sperimentale” accuratamente circoscritto, non possa essere applicato come un possibile setaccio interpretativo nell’ambito di una valutazione estetica più ampia.

Qualora infatti scegliamo di assegnare all’“Arte” una tensione pedagogica ed evolutiva, è importante allora domandarsi quali fattori concorrano maggiormente ad attivare il fruitore, quale tipo di opere sia potenzialmente più ‘attivante’, e come possa l’artista propiziare e accrescere tale attivazione- e ciò tenendo presente l’acquisizione di questa nuova ricerca, grazie alla quale sappiamo ora che sottoponendo al fruitore elementi contraddittori da elaborare nell’opera d’arte, non solo lo si impegnerebbe nella risoluzione di un problema, ma lo si esporrebbe anche a una forma di piacere intellettuale. Sappiamo inoltre che nel concetto di interattività risiedono diversi gradi di attivazione, e che lì dove vi sarà contraddizione, meglio ancora quando individuata in concetti universali, l’interattività sarà all’insegna di un’attivazione cerebrale certamente più intensa e sofisticata.
Se proporre stimoli contraddittori costituisce dunque un plusvalore percettivo, sarebbe allora interessante tracciare alcune considerazioni circa alcuni esempi paradigmatici del connubio di arte e contraddittorio, a partire da una delle opere più radicali e rivoluzionarie del 20esimo secolo, la famosa ‘Fontana’ di Marcel Duchamp.


"Fontana" - M. Duchamp, 1917

Marcel Duchamp accanto alla "Fontana"

Il termine “anti-arte”, coniato dallo stesso Duchamp, è quanto mai descrittivo dell’operazione artistica portata avanti in questo readymade, in cui l’artista non si cimenta nella produzione oggettuale, bensì si limita a un intervento selettivo e propositivo dell’oggetto, spostando il baricentro dell’operazione artistica dall’esecuzione di un’ “opera realizzata ad arte”, alla selezione e somministrazione di stimoli percettivi complessi. Di riflesso l’interpretazione di quest’opera si dovrà incentrare su parametri concettuali piuttosto che strettamente formali.
Proviamo allora a integrare tali criteri interpretativi con un parametro che rilevi l’eventuale scelta di “contraddizioni attivanti” a monte della selezione e installazione del ready-made.
Immaginando di seguire un ipotetico fruitore che si approcciasse a quest’opera nel 1917, dovremmo in primo luogo attribuirgli una serie di pre-giudizi culturali a costellare un’idea di bello e un concetto di “Arte”, connessi a una stratificazione di aspettative circa quali oggetti, quali esperienze estetiche, fosse plausibile incontrare in un contesto museale o galleristico. In altre parole dovremmo iniziare con il considerare una serie di fattori estremamente complessi che sommandosi vadano a costituire la sua pre-comprensione.
Se il medesimo fruitore avesse saputo di accingersi a vedere un’opera di Duchamp, allora la conoscenza pregressa della poetica dell’artista avrebbe potuto far parte del bagaglio di informazioni preliminari alla percezione. Tuttavia è interessante notare come, almeno in occasione della primissima presentazione dell’opera, Duchamp avesse sgomberato il campo da una simile anticipazione preparatoria, firmando l’orinatoio con uno pseudonimo.
Giungendo dinnanzi all’opera una serie di contraddizioni sarebbero probabilmente state individuate (impossibile ipotizzare in quale ordine) nella disposizione dell’oggetto (ri-orientato in una posizione invertita, perpendicolare, rispetto a quella usuale), nel titolo assegnato (“fontana” e non “orinatoio”, invertendone la funzione), e nel fatto che l’artista, chiunque egli fosse, avesse implicitamente voluto collocare un orinatoio nel “patto percettivo” chiamato “Arte”. La sorpresa, forse addirittura lo sgomento, avrebbero poi ceduto il passo a una rielaborazione degli assunti concettuali della pre-comprensione alla luce dell’esperienza percettiva appena fornita dall’opera. Potrebbe poi esserne derivata una riformulazione delle idee di arte, di bellezza, di contesto espositivo, o piuttosto un rifiuto radicale dell’opera alla luce di un’incompatibilità con le medesime convinzioni estetiche pregresse.
L’entità di una contraddizione è un fatto estremamente variabile e relativo, dal momento che via via che l’opera si integra in un ‘sistema’ artistico, storicizzandosi, essa vedrà attenuarsi la propria portata contraddittoria, aprendo la strada a un ‘genere’.
Di minor portata rivoluzionaria quindi, ma pur sempre notevole, è quindi l’incursione successiva di altri artisti nell’anti-arte.


Christian Boltanski, “La Casa Mancante”, Berlino, 1990

Christian Boltanski, “La Casa Mancante”, Berlino, 1990, particolare

Christian Boltanski in “La Casa Mancante” (Berlino 1990), opera definibile “anti-monumentalista”, applica l’anti-arte al genere monumentale in un’operazione su due fronti. Da una parte l’aspettativa del fruitore, di trovare nel “monumento” la rappresentazione mimetica di un surrogato di ciò che è stato perduto è contraddetta da una presentazione diretta dell’assenza (il vuoto in questo caso è un “ready-un-made”, operato dal bombardamento aereo di Berlino del Febbraio 1945). Dall’altra parte un’indagine analitica è portata avanti da Boltanski e dai suoi studenti nel ricostruire con precisione la disposizione e l’identità degli abitanti dell’edificio mancante, e nel posizionare targhe collocate approssimativamente dove essi vivevano, con nominativi, data di nascita e di morte, occupazione, distinguendo gli ebrei dai non ebrei (diversità culturale persa a causa delle leggi razziali naziste). Ciò che ne deriva è la presentazione dell’identità in forma denominativa e analitica, anziché rappresentazione mimetica, e al contempo la negazione dell’identità stessa di cui è presentata l’assenza materiale. Nella scelta di non evadere tale assenza, e nell’astinenza mimetica, risiede di fatto l’efficacia della contraddizione anti-monumentalista. 

Nell’artista svizzero Urs Lüthi a essere problematizzato nelle sue contraddizioni, è il concetto di identità e autoritratto.   
Urs Lüthi, Autoritratto,(particolare dell’installazione) Run for Your Life, 2000

Fotografia di Urs Lüthi, dalla serie "Art is the better life", 2008, Courtesy Galerie Lelong, Zürich und Paris
Nell’ambito dell’installazione “Run for Your Life”, 2000, l’artista presenta allo spettatore una fotografia, presumibilmente una copertina di rivista, sovraimprimendo ad essa in posizione centrale la scritta “autoritratto”. Il patto percettivo stretto con il fruitore ha quindi un ruolo prioritario nell’invito a ricondurre alla categoria “autoritratto” l’immagine sottostante- che in ultima analisi consiste in un ready-made selezionato dall’artista . Ne segue una contraddizione spiazzante fra l’identità fisica dell’autore che è maschio, in età avanzata, calvo e pingue, e la ragazza giovane e sensuale ritratta nella fotografia. Questo in diretto contrasto con il concetto mimetico di autoritratto come rappresentazione verosimigliante dei propri connotati fisici. Ciò che può conseguire dall’individuazione di queste contraddizioni è la rielaborazione, da parte del fruitore, del concetto di identità e di auto-percezione nell’autoritratto.
Gli esempi di anti-arte e di opere strutturate attorno a un criterio contraddittorio sono molteplici, ma già a partire dai pochi esempi fin qui riportati è evidente che la complessità e la ricchezza di queste opere risiede proprio nella stratificazione dei diversi piani di contraddizione, implicando tanto il piano universale (idee e convinzioni estetiche), quanto il piano particolare (l’opera, il rapporto interno fra i suoi elementi costitutivi, e le modalità di installazione). Sebbene sia evidente l’odierna impossibilità tecnica di ridurre una simile complessità di elementi linguistici e concettuali a uno stimolo percettivo generatore di effetti misurabili, cionondimeno un secolo di storia dell’arte ci testimonia chiaramente il potere dirompente dell’ “anti-opera d’arte”.
Tale potere è ribadito, piuttosto che negato, da movimenti come lo Stucchismo (Stuckism, fondato nel Regno Unito nel 1999), che incentrando la propria poetica sul concetto di “anti-anti-arte”, in aperta polemica con i luoghi ormai divenuti comuni dell’arte concettuale, propugnano un ritorno alla figurazione. Tali posizioni apparentemente discordanti rispetto all’anti-arte, di fatto loro malgrado finiscono per riconfermare un’idea di storia dell’arte contemporanea che si articola per antitesi dialettiche.
Con ciò non si vuole affermare che la contraddizione e la trasgressione siano sempre evolutive, né si vuole giustificare qualsiasi anacronismo in quanto intrinsecamente contraddittorio della contemporaneità. 
Tuttavia le scoperte circa gli effetti della contraddizione sulla percezione, ed eventualmente sulla fruizione dell'opera d'arte, ci incoraggiano a valorizzare fortemente le dinamiche trasgressive dell'arte, sottraendo l'operato di tanti artisti a un'interpretazione che ne banalizzi il contributo evolutivo riducendolo alla semplice provocazione, eccentricità, autoindulgenza eretica.

[1] Per approfondire i dettagli della ricerca, mezzi e modalità di sperimentazione si rimanda all’articolo a seguire, di Marco Vuilleumier
[2]Medaglia MT, Tecchio F, Seri S, Di Lorenzo G, Rossini PM., Porcaro C. Contradiction in Universal an Particular Reasoning. Hum Brain Mapp.304187-4197(2009).

STUDIO SPERIMENTALE SULLA CONTRADDIZIONE
    -APPROFONDIMENTO-
a cura di Marco Vuilleumier in collaborazione con Maria Teresa Medaglia


Il cervello è una struttura estremamente complessa, probabilmente uno degli organi meno conosciuti, è diviso in zone deputate a differenti compiti di gestione, controllo e coordinazione delle attività dell’organismo e del suo rapporto con l’ambiente. Siamo in grado di leggere, parlare, ricordare, calibrare i movimenti e svolgere tutta una serie di attività in cui il nostro intervento cosciente è quasi nullo. Questo per via dell’alto grado di spontaneità con cui riusciamo ad effettuare la gran parte delle suddette attività.
Essendo la sede del pensiero, il cervello costituisce quella che nel nostro tempo viene considerata la macchina più complessa mai realizzabile. Senza questo grado di complessità così elevato non potremmo certamente essere “consapevoli” di noi stessi nella misura in cui ci vantiamo d’esserlo.
Eppure, nonostante questo, la nostra soggettività risulta essere solo la manifestazione di una componente parziale rispetto al complesso. La consapevolezza sarebbe, quindi, solo una conseguenza “emergente” del sistema, mentre il resto della struttura cerebrale assolverebbe a buona parte delle funzioni necessarie al proseguimento della vita, di cui non ci rendiamo conto fino a quando procedono in maniera regolare.
Comprendere al completo i meccanismi che ne regolano il funzionamento è uno degli obbiettivi piu’ ambiti, per il quale la comunità scientifica si prodiga costantemente; questo anche in virtù delle difficoltà d’osservazione del fenomeni cerebrali e della raccolta di dati, fondamentali per la formulazione di modelli, ipotesi e teorie.
La ricerca portata avanti dall’equipe coordinata dal Dott. Camillo Porcaro[1] aveva come fine quello di focalizzare l’analisi su uno dei fenomeni più determinanti circa il corretto ragionamento.
Ragionamento che potremmo affermare essere fondato su basi della logica tradizionale, che è peraltro uno dei punti di partenza per questo studio.
Tali basi sono identificabili nel noto quadrato aristotelico fondato sulle proposizioni categoriche[2], ossia enunciati di carattere universale che si riferiscono alla totalità e presentano l’operatore o quantificatore logico ‘Tutti’ ed enunciati di carattere particolare che si riferiscono ad una parte e contenengono l’operatore o quantificatore logico ‘Qualche’.
Tali proposizioni categoriche possono avere tra loro differenti tipologie di relazioni logiche, come il rapporto di contraddittorietà.
Ed e’ proprio sul rapporto di contraddittorietà tra proposizioni categoriche che si è cercato di comprendere maggiormente la natura di alcune dinamiche e la loro modalità di sviluppo da un punto di vista strettamente neurofisiologico.
Come vengono processate da parte del cervello informazioni di carattere contraddittorio? Categorie semantiche differenti possono essere in grado di impegnare differenti zone del cervello? Come reagisce fisiologicamente il cervello sottoposto ad una serie di stimoli dal carattere quantitativo “particolare” (riferito alla “parte”), rispetto a stimoli dal carattere quantitativo “universale” (riferito alla “totalità”)?
Questi sono alcuni degli interrogativi che hanno portato il gruppo di ricerca ad intraprendere una linea d’indagine sperimentale.
Allo scopo di perseguire il proprio fine speculativo, il gruppo di ricerca ha portato avanti uno studio in cui ad un campione sperimentale veniva somministrato un protocollo fondato su una serie di proposizioni categoriche recante una condizione di contraddittorietà. Grazie alle moderne tecniche di neuroimaging come l’elettroencefalografia ad alta densità (hd-EEG) sono stati registrati i fenomeni chimico-fisici propri dell’attività cerebrale. Tutto ciò durante uno dei passaggi cruciali del ragionamento umano: l’individuazione del carattere contraddittorio, prerequisito necessario e funzionale alla strutturazione del pensiero umano, tanto nel singolo individuo, quanto nella collettività.
Ogni esperimento che voglia definirsi tale deve necessariamente rispettare determinati criteri .
Prima di passare al vaglio un fenomeno o ancorarsi ad una teoria, è necessario strutturare un protocollo sperimentale che presenti delle condizioni da rispettare durante lo sviluppo di ogni test, al fine di ridurre il numero di variabili influenti nei sistemi che andranno poi analizzati per estrapolare gli elementi costanti o discordanti. Tutto questo è finalizzato alla formulazione di un modello interpretativo in grado di descrivere e argomentare l’ambito d’indagine, ma che può essere rimesso in discussione o abbandonato nell’evenienza che tale modello si dimostri inefficiente in una qualche sua parte, o mediante verifica.
Per l’implementazione del protocollo sperimentale sono state utilizzate, come abbiamo gia’ accennato, le proposizioni categoriche aristoteliche. Una proposizione categorica, in modo piu’ approfondito, è un enunciato composto da  quattro componenti: La prima componente e’ ‘Qualche’ o ‘Tutti’, e specifica la quantità della proposizione categorica, le proposizioni con il quantificatore logico ‘Tutti’ sono chiamate universali, mentre le proposizioni con il quantificatore ‘Qualche’ sono chiamate particolari. La seconda componente e’ il termine ‘S’ ed e’ il soggetto della proposizione categorica. La terza componente e’ la copula (e’, non e’) e specifica la qualità di una proposizione categorica, le proposizioni con la componente ‘ e’ ’ sono chiamate affermative, mentre le proposizioni con la componente ‘ non e’ ‘ sono chiamate negative. La quarta ed ultima componente e’ il termine ‘P’ ed e’ il predicato della proposizione. Le proposizioni categoriche possono essere quindi  distinte per qualità in affermative o negative e per quantità in universali e particolari. Combinando la distinzione qualitativa di affermativo e negativo con la distinzione quantitativa di universale e particolare si ottengono quattro differenti tipologie di proposizioni categoriche aristoteliche, le quali   vennero indicate dai logici medievali con le vocali delle parole latine ‘affirmo’ e ‘nego’: Con le prime due vocali della parola latina affirmo venivano indicate le proposizioni affermative, ed in particolare con la vocale ‘a’ la proposizione universale affermativa (tutti gli S sono P, SaP), e con la vocale ‘i’ la proposizione particolare affermativa (qualche S e’ P, SiP). Mentre con le vocali della parola latina nego venivano indicate le proposizioni negative, ed in particolare con la vocale ‘e’ la proposizione universale negativa (tutti gli S non sono P, SeP), e con la vocale ‘o’ la proposizione particolare negativa (qualche S non e’ P, SoP).
Le proposizioni categoriche cosi organizzate possono essere tra loro contrarie, subcontrarie, subalterne o contraddittorie. Tutti i possibili rapporti delle diverse tipologie di proposizioni, vennero schematizzate nel noto quadrato aristotelico.

Quadrato aristotelico
 

Lo studio si è concentrato sul rapporto di contraddittorietà esistente tra due proposizioni categoriche, con il fine di indagare i processi cognitivi coinvolti nel processamento di informazioni contraddittorie.
Come già esplicitato, una delle ipotesi iniziali era quella di comprendere se differenti tipologie di proposizioni categoriche contenenti differenti tipi di quantificatori logici  potessero, durante la fase di processamento delle informazioni, avere differenti comportamenti cerebrali.
Per l’osservazione del fenomeno è stato dunque necessario porre le basi per cui il fenomeno stesso potesse verificarsi.
Per dare luogo ad un rapporto di contraddittorietà, le singole proposizioni sono state presentate sotto forma di dialogo, in modo da formare coppie di proposizioni categoriche[3]. Nel setting sperimentale sono state elaborate 200 coppie di proposizioni categoriche della forma premessa-conclusione e sono state equamente divise tra contraddittorie e non contraddittorie, la metà di esse presentavano la premessa con l’operatore logico universale ‘Tutti’ e l'altra metà con l’operatore logico particolare ‘Qualche’. Tutte le coppie di proposizioni categoriche sono state presentate in modo casuale. Le coppie di proposizioni non contraddittorie costituivano gli elementi di controllo dell’esperimento. Questo permetteva ai partecipanti  di non prevedere un rapporto contraddittorio costante. Se questo si fosse verificato gli individui non si sarebbero applicati in alcun ragionamento circa i termini proposti. Al contrario, con gli elementi di controllo, si è verificata una condizione in cui il soggetto è stato continuamente indotto al vaglio dell’inferenza generata dalla conclusione in riferimento alla premessa posta. Condizione utile, se non necessaria, al fine di analizzare il processo di attivazione cerebrale e la misura in cui esso si manifesta.
Il protocollo contenente le coppie di proposizioni categoriche veniva sottoposto secondo un iter temporale ben preciso, il soggetto partecipante volontario all’esperimento sedeva comodamente difronte allo schermo di un computer, sul quale appariva una prima proposizione categorica o premessa e rimava sullo schermo il tempo sufficiente per essere letta dal partecipante, poi successivamente  appariva sullo schermo una seconda proposizione categorica o conclusione, e dopo di cio’ veniva chiesto al soggetto se la conclusione era contraddittoria rispetto alla premessa data.
L’attività elettrica cerebrale durante il processamento delle differenti proposizioni categoriche somministrate veniva registrata mediante un sistema elettroencefalografico ad alta densità spaziale costituito da 128 elettrodi registranti posizionati in modo uniforme sullo scalpo del volontario. L’attività elettrica del singolo neurone (tali potenziali generati durante l’attivazione delle cellule nervose sono dell’entità dei milionesimi di volt) non può essere registrata dalle tecniche non invasive come l’EEG. Quello che si può registrare e’ l’attivita di milioni di neuroni che lavorano insieme nello stesso istante.  Grazie a questo lavoro comune dei neuroni le tecniche non invasive come l’EEG sono capaci di registrare variazioni nell’intensità del campo elettrico, appena sopra la cute (dell’ordine di qualche micro volt).
A complicare ulteriormente la registrazione dell’attività elettrica cerebrale in modo non invasivo e’ la presenza di attività elettriche complementari che non è possibile sospendere o evitare al fine di migliorare le condizioni di sperimentazione. Si tratta difatti di attività “parallele” all’attività neuronale, come movimenti oculari, battito cardiaco, movimento e interferenze elettromagnetiche, dovute al funzionamento di apparecchiature di laboratorio. Tali attività elettriche vengono denominati artefatti biologici (movimenti oculari, battito cardiaco e movimento) e rumore ambientale (interferenze elettromagnetiche). Entrambi gli artefatti possono anche essere 10-50 volte maggiori dell’attività cerebrale registrata sullo scalpo. L’intensità di tali artefatti e’ in grado di alterare i risultati di un esperimento,
Allo scopo di separare gli elementi di artefatto rispetto all’attività’ cerebrale di interesse è stato adoperato un algoritmo capace di separare tali attività in base alle proprietà statistiche del segnale EEG registrato (ICA, Indipendent Component Analysis). Tale algoritmo e’ stato usato per la prima volta nell’ambito delle neuroscienze nel 1994, ed è oggigiorno ampiamente adoperato nel settore delle neuroscienze.
Questa forma di processo ha rivestito un ruolo di importanza non secondaria ai fini della ricerca, rendendo l’interpretazione dei dati molto meno complessa, facilitando l’estrapolazione delle informazioni. Utilizzando tale metodo è anche possibile riuscire a separare nello stesso momento due segnali differenti complessi che si manifestano nello stesso sistema, come nel caso della distinzione dell’elettrocardiogramma del feto e della madre[4] o per l’identificazione dell’attività cerebrale fetale evocata da stimoli sonori[5].
Al termine dello studio, i ricercatori hanno avuto modo di fare alcune constatazioni.
I tempi di risposta dei partecipanti al processamento della contraddittoria sia nel caso in cui la conclusione era universale o particolare sono risultati comparabili, sia per le condizioni contraddittorie sia per quelle non contraddittorie Al contrario, i tempi di risposta erano più lunghi quando la conclusione era universale rispetto a quando la conclusione era particolare. Ciò significa che vi è un tempo di reazione più lungo quando il soggetto deve verificare se la conclusione universale contraddice la premessa particolare sia nel caso contraddittorio che nel caso non contraddittorio.
I risultati dei dati registrati ed analizzati evidenziano un complesso network corticale che coinvolge la corteccia Temporo-polare, Brodmann Area (BA) 21,38, la corteccia Orbito-Frontale,  BA 10,11,47 e il Cingolo Anteriore BA 32.
Durante il ragionamento, al fine di identificare se la conclusione e’ contraddittoria rispetto alla premessa, il network corticale mostra una significativa maggiore attivazione quando viene processata una proposizione universale. Il limitato carico computazionale richiesto al processamento di una proposizione particolare potrebbe essere dovuto al processamento di un unico esempio, al contrario di più esempi o la mancanza di un controesempio cercato nel caso di una proposizione universale. Come abbiamo detto  sopra I tempi di risposta dei partecipanti, più lunghi nel processare una conclusione universale da una premessa particolare sembrano sostenere questa ipotesi.
Al contempo però il network corticale risulta maggiormente attivato durante il processamento di ragionamenti che includono la componente contraddittoria.
In termini pratici, sembra che per il cervello risulti più impegnativo processare informazioni a carattere semantico universale, in seguito ad una premessa di carattere particolare, e questo soprattutto se l’accostamento reca un rapporto di contraddittorietà. Qualora invece fosse chiesto di eseguire il passaggio inverso, ossia processare una proposizione di carattere particolare in virtù di una premessa universale, lo sforzo richiesto sarebbe minore, poiché nell’indagare la coerenza semantica della coppia l’individuo avrebbe a disposizione un numero minore di elementi da confutare.
Tenendo conto delle capacità di un individuo “sano”, perfettamente in grado di rielaborare o accedere ai dati della sua memoria semantica , allora si può inferire che un minor numero di elementi da confutare corrisponde ad un lavoro di minore entità.
Fin qui sembra che non vi sia nulla di irregolare o di illogico: sembra normalissimo che, dal punto di vista del ragionamento, una contraddizione possa richiedere uno sforzo elaborativo/computativo maggiore rispetto ad un elemento semantico di carattere coerente, consistente.
Ma quello che è stato scoperto e che non era stato messo in conto, è che una forma di attivazione non si ha necessariamente solo in relazione al computo mentale, e cioè durante il riconoscimento della validità della sequenza logica, bensì anche in una fase successiva. Tale fase succede al riconoscimento dell’elemento contraddittorio; difatti è stato riscontrato che, una volta individuata la non coerenza, si verifica una ulteriore attivazione dell’area coinvolta.
Questo fenomeno ha dato modo ai ricercatori di supporre l’esistenza di un meccanismo di premio, che accompagna la conclusione del ragionamento. Tale meccanismo è stato chiamato “self-generated reward system”, traducibile come “sistema endogeno di auto gratificazione”.
Questo curioso fenomeno si ipotizza possa essere causato in funzione della tensione dell’individuo che, messo dinanzi ad un elemento di natura problematica, cerca di  trovare una soluzione al bisticcio semantico presentatogli. Al termine dell’individuazione si ha un picco dell’attività elettrica localizzata, probabilmente dovuto al fatto che il soggetto in questione è convinto di aver raggiunto un risultato, di aver conseguito una soluzione, di aver risolto con successo una problematica.
Dato che si tratta di una scoperta relativamente recente, la dinamica non è stata completamente indagata nella totalità della sua manifestazione. Si spera possa trattarsi di un nuovo fronte di ricerca che, se intrapreso, apporterebbe nuove conoscenze, utili alla comprensione delle basi evolutive del ragionamento o delle dinamiche che hanno avuto ruolo nel corso dell’evoluzione.



[1]  Medaglia MT, Tecchio F, Seri S, Di Lorenzo G, Rossini PM., Porcaro C. Contradiction in Universal and Particular Reasoning. Hum Brain Mapp.30 4187-4197 (2009).
[2] Una proposizione e’ un discorso che afferma o nega qualcosa rispetto a qualcosa. Tale discorso, poi, e’ universale o particolare. Con discorso universale intendo quello che esprime l’appartenenza ad ogni cosa o a nessuna cosa; con discorso particolare intendo quello che esprime l’appartenenza a qualche cosa o la non appartenenza a qualche cosa (Aristotele, Analitici primi I.24, a16-20).

[3] La coppia di proposizioni categoriche erano presentate sotto la forma premessa o prima proposizione e conclusione o seconda proposizione. Ad esempio un tipo di coppia di proposizioni  può essere: (SaP)+(SoP); proposizione categorica universale affermativa + proposizione categorica particolare negativa. (“Tutte le rocce sono metamorfiche, Qualche  roccia non e’ metamorfica.”)
[4] Salustri C., Barbati G., Porcaro C. Fetal Magnetocardiographic Signals Extracted by ‘Signal
Subspace’ Blind Source Separation. IEEE Transaction on Biomedical Engineering, 52 1140-2.
(2005).
[5] Porcaro C., Zappasodi F., Barbati G., Salustri C., Pizzella V., Rossini PM., Tecchio F. Fetal
auditory responses to external sounds and mother’s heart beat: detection improved by Independent
Component Analysis. Brain Research, 1101 51-58 (2006).