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venerdì 16 settembre 2011

FALL-OUT E RITORNO





Che colore ha lo iodio radioattivo? Che sapore ha l’americio? Quanto è lontana la Bielorussia? Sono domande semplici nella loro formulazione, domande che potremmo immaginare facilmente in bocca a un bambino che abbia assistito al telegiornale assieme ai genitori e stia tentando di rappresentarsi il racconto di qualcosa di estremamente insidioso, e allo stesso tempo immateriale, apparentemente lontano.
Ma sarebbero domande imbarazzanti per la maggior parte degli adulti, per quanto istruiti. Perché spesso neanche loro sanno realmente di cosa si tratta, o perché non sanno a quali metafore, a quali analogie ricorrere per rendere più accessibile qualcosa di così remoto.
Distante, per molti versi ignoto, è infatti ciò che accadde a suo tempo a Chernobyl, e più recentemente a Fukushima. I fenomeni fisico-chimici che si sono abbattuti catastroficamente su questi luoghi ne hanno fatto laboratori a cielo aperto dell’imprevedibile. Pertanto perfino il linguaggio tecnico degli addetti ai lavori deve arrancare per dare un nome a ciò che è accaduto e che continua ad accadere. Ma oltre a essere difficile dar nomi alle cose, ancor più difficile è collocarle in uno spazio e in un tempo.
Quando è accaduto il disastro di Chernobyl? Nel 1986? Ma se la forbice più ampia dell’impatto sulla salute umana deve ancora manifestare le sue tragiche conseguenze, quando annunciare il disastro? Quando piangerne le vittime? Quando far partire i nostri treni della solidarietà? E il disastro è davvero relegato a Chernobyl oppure l’Europa intera ha subito l’impatto epidemiologico di patologie connesse alla fuga radioattiva?
Insomma, l’avanguardia tecnica ha partorito un fenomeno talmente inedito da precorrere e superare la capacità di rappresentazione delle culture che l’hanno generato, mettendo in crisi le consuete categorie di spazio, tempo, misurabilità.

Immagine tratta dal documentario Fall-Out, di Daria De Benedetti

E anche quando intellettualmente vi fosse una comprensione scientifica, razionale, la capacità di relazionarsi affettivamente a tali realtà non era all’epoca della costruzione di molte centrali, e tuttora continua a non essere, pronta per concepire il rischio di rendere inabitabile per millenni un territorio. Come rappresentarsi un tempo così lungo? Come sentire una sincera preoccupazione per generazioni così lontane? Come amare pro-pronipoti che mai conosceremo e che a loro volta non ricorderanno il nostro nome? Quanti di noi saprebbero realmente “amare” un ecosistema?
Serve un lavoro culturale, linguistico, di educazione alla rappresentazione intellettuale ed emotiva di concetti estremamente astratti, o ramificati nello spazio e nel tempo, che tutt’ora è solo agli albori. Un lavoro che indubbiamente non rientra nelle urgenze, di natura più prosaicamente economica, degli enti che promuovono la costruzione di centrali nucleari.
Ammesso che si possa costruire una centrale nucleare dotata di meccanismi di sicurezza, tali meccanismi sono “sicuri” solo in circostanze ordinarie (e tuttavia Chernobyl ebbe comunque un malfunzionamento nell’ambito di circostanze ordinarie, per quanto l’ingegnere che la costruì avesse dichiarato che potesse in tutta sicurezza essere collocata nella Piazza Rossa)
Ma è importante dire e sottolineare che non esiste e non esisterà mai una centrale nucleare sicura da eventi “straordinari” (e Fukushima, esposta a uno Tsunami e a una serie di incredibili scosse telluriche, collassò proprio in imprevedibili circostanze straordinarie).
Un cataclisma naturale, o l’atto insensato di un folle, una guerra, o un attentato terroristico, fanno parte dell’imprevedibile da mettere in conto per ammettere una volta per tutte che non vi è sicurezza alcuna nel nucleare.
E’ ragionevole quindi affermare che se il problema della contaminazione da radioattività è un problema fisico, chimico, il problema dei disastri nucleari nel loro aspetto socio-politico e psicologico è fondamentalmente un problema di comunicazione e informazione.
Le popolazioni limitrofe alle centrali non sanno fino in fondo a cosa sono esposte, non sono avvertite per tempo quando l’irreparabile è già accaduto, e infine non sanno di non essere in alcun modo tutelate economicamente per i possibili danni (dal momento che praticamente nessuna economia mondiale è in grado di sobbarcarsi una forbice di danni alla salute che continuerà a crescere esponenzialmente per decenni e decenni).
La solidarietà internazionale poi presto o tardi distoglie la propria attenzione, distratta dalla nuova guerra, dal nuovo terremoto, dalla nuova crisi economica, dimenticandosi di interi mondi familiari cancellati in un giorno, destinati a disintegrarsi nel loro esilio forzato.
La filosofia contemporanea, in particolare nel dibattito nato negli anni Settanta in seno ad una rivalutazione della filosofia pratica che si riconosce nella possibilità di un recupero “forte” della razionalità in etica, ha posto interessanti questioni al riguardo.
“Agisci in modo tale che gli effetti della tua azione siano compatibili con la continuazione di una vita autenticamente umana”. Questa celeberrima citazione, che parafrasa la massima kantiana, è come è noto, contenuta nel saggio del '79 “Principio responsabilità” di Hans Jonas. Jonas, filosofo ebreo, prende le mosse dalla valutazione dell' “esagerazione tecnica” rappresentata dall'idea del progresso illimitato e contestualmente della passiva disponibilità alla manipolazione della natura.
Se è vero che la separazione tra uomo e natura caratterizza il pensiero occidentale, per Jonas una vera e propria “euristica della paura” rispetto a presunti scenari disastrosi legati all'ambiente, porterebbe alla messa in opera di una “responsabilità” etico-ontologica nei confronti dell'essere stesso dell'umanità, non più disposta a calcolare ottimisticamente le conseguenze (non più valutabili a breve termine) della tecnica, ma  al contrario dando sempre più credito alle previsioni cattive.
Tali contributi, che molto hanno stimolato e condizionato il dibattito culturale e che prendono come oggetto di riflessione proprio quel concetto di  tecnica che Heidegger – nella sua suggestiva e  “sommaria” interpretazione che identifica l'intera  storia d'Occidente come storia della metafisica -  considera la manifestazione del progressivo oblio dell'essere che ha reso l'ente oggettività calcolabile, sono l'irrinunciabile punto di partenza per una riflessione sulla possibilità di “e-duca-zione”al futuro.
Un'educazione al futuro deve tener ben ferma la considerazione che l'immaginare le conseguenze di un'azione sull'ente- natura richiede dei  nuovi linguaggi.
La difficoltà di narrare l’evento, l’impensabilità dell’accaduto, lo sradicamento forzoso dal proprio contesto sociale, territoriale, culturale, la propensione collettiva all’oblio, la comune tendenza dei governi a insabbiare, nascondere, minimizzare, e in ultima analisi a censurare - sono tutti fattori che concorrono tanto a livello individuale, quanto a livello collettivo, a favorire l’insorgenza del trauma psicologico grave, con tutta la sofferenza psichica supplementare che il trauma aggiunge al dolore, al lutto, alla povertà e alla malattia.
E’ per questo che l’operazione estetico-linguistica di un reporter, di un fotografo e di un giornalista sono in quest’ambito di vitale importanza, proprio perché in grado di forgiare ponti linguistici che ci aiutino a dar forma a rischi, visualizzare danni, e non ultimo, a colmare una distanza che non è solo fisica e culturale, ma psicologica.
Il reportage realizzato da Daria de Benedetti, con tutte le difficoltà di una coraggiosa autoproduzione e un’ancor più coraggiosa esperienza “in loco”, rappresenta un valido contributo alla costruzione di una cultura della solidarietà e dell’empatia.
Meritevole di aver saputo ascoltare voci e storie che, sei anni prima che Fukushima ce ne rinnovasse il ricordo, giacevano ancor più inascoltate di quanto non lo siano ora, e di aver rischiato la propria salute oltrepassando una frontiera comunemente interdetta allo sguardo dei media.

Immagine tratta dal documentario Fall-Out, di Daria De Benedetti

Il concetto di Fall-out (straripamento, fuoriuscita), presente nel titolo del reportage, sintetizza perfettamente la natura di un fenomeno che travalica i confini geografici, eccede le capacità linguistiche, superando ogni possibile tentativo di contenimento non solo fisico, ma anche e soprattutto mentale.
L’operazione intrapresa da Daria De Benedetti si è strutturata a sua volta a partire da una trasgressione di tipo inverso e contrario, all’insegna di un attraversamento degli stessi confini, delle stesse zone interdette, in un percorso a ritroso che conduce all’epicentro di una rimozione collettiva.
Ed è questo un sentiero che inizia a partire dall’apertura esperienziale dell’autrice a una relazione umana diretta, empatica, e personale. 


a cura di Luca Zanchi e Viviana Meschesi


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