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giovedì 8 settembre 2011

LAMPEDUSA/TERRA INCOGNITA



Ho scelto di recarmi a Lampedusa come un’occasione di riflessione sul concetto di frontiera politico/antropologica in un contesto nel quale il costante  attraversamento di confini da parte di migliaia di migranti pone con forza il problema dell’integrazione. Assistere la fotoreporter Daria De Benedetti mi ha permesso di venire in contatto con altri fotoreporter, giornalisti, operatori di ONG e altre associazioni presenti sull’isola, dandomi modo di confrontarmi con le problematiche dell’informazione giornalistica, con i suoi confini strutturali (limiti linguistici), e con quelli imposti dal regime di censura mediatica voluto dall’attuale governo italiano (più specificamente dal Ministro dell’Interno Maroni).
Quanto segue è una breve relazione del lavoro svolto con 3 proposte installative.

AT LAND (TERRA INCOGNITA #4)  
Trailer di 3 min. dell’installazione audio originale di 17min.
Grazie a un contatto presso la guardia di Finanza (la quale si occupa assieme alla Guardia Costiera di individuare, assistere e scortare i barconi di migranti fino al molo mercantile di Lampedusa) il 12/07/2011 alle ore 22.46 Daria De Benedetti e io abbiamo avuto modo di assistere a uno sbarco di migranti.
Alcuni operatori della Croce Rossa già nel pomeriggio ci avevano avvisato dell’esistenza di un’area transennata entro la quale giornalisti e fotografi devono restare in modo da non intralciare le operazioni di attracco e sbarco. Daria De Benedetti in quanto fotografa attenendosi alla distanza prescritta non avrebbe avuto problemi. Io vengo avvertito invece del fatto che la presenza di un microfono non sarebbe stata consentita (esortandomi tuttavia a “provare lo stesso").
A Lampedusa, come ho avuto modo di scoprire in seguito, non è permesso infatti parlare con i migranti. Non è permesso registrare voci.
Il mio interesse per un lavoro con il suono nasceva però dalla necessità di veicolare un contenuto esperienziale che richiedesse all’eventuale fruitore un ascolto, e quindi un’accoglienza, che concedesse all’altro il proprio tempo. Per questo ero intenzionato a non comprimere in un’icona fotografica la variegata complessità delle esistenze che sbarcano sull’isola – ovviamente anche un’installazione audio può finire per costituire un’icona “acustica” né più ne meno di quanto uno scatto fotografico ne possa costituire una “visiva”, eppure l’introduzione di un elemento temporale, il rifiuto dell’immediatezza, intuitivamente mi sembravano in questo caso una forma più rispettosa di approssimazione all’alterità.
La dinamica di questo, come di altri sbarchi, ha rafforzato tale ipotesi.
Ciò che sono riuscito a registrare dall’area-stampa del molo è stato l’arrivo del barcone, il sommarsi del rumore dei motori a quello del mare, e poi una lunga, meticolosa operazione di conteggio.
Accanto a me, accovacciata sulla banchina, una donna italiana (che poi si rivelerà Luogo Tenente della Guardia Costiera in borghese) tentava di scambiare alcune parole di accoglienza con i migranti che trovandosi in prua aspettavano per ultimi di essere sbarcati.

Un ispettore è subito intervenuto a interrompere il contatto fra la donna e i migranti (non sapendo che si trattasse di una membro della Guardia Costiera), imponendo a me di spegnere il registratore.
Questo il breve dialogo:
Donna Italiana - How are you? (Come state?)
Migranti - (silezio)
Donna Italiana - Where are you from? (Da dove venite?)
Migranti - We’re from many countries … Africa … (Veniamo da molti paesi … Africa … )
Donna Italiana - Africa?... I’m from the Coast Guard… Lieutenant (Africa? Io sono della Guardia Costiera…Luogotenente)
Ispettore - Allora?! Di fotografare vi è permesso, di parlare con le persone non vi è concesso
Nei giorni successivi ho avuto modo di apprendere che in virtù di una circolare del Ministro dell’Interno Maroni (prot. n. 1305 del 01/04/2011) non solo i due centri di accoglienza presenti sull’isola (Contrada Imbriacola, e l’ex-base Nato Loran), ma interi tratti di territorio sono “interpretati” dalle autorità come area militare e pertanto interdetti all’informazione (oltre che ai cittadini). Di conseguenza aree non segnalate come “zona militare”, come le strade che conducono ai centri, o appunto porzioni del molo mercantile in occasione dello sbarco, occasionalmente (o meglio “discrezionalmente”) divengono anch’esse per estensione zone interdette ai cittadini come alla stampa.
Lampedusa si presenta pertanto come un reticolo di confini non-tracciati di natura non solo politico-geografica (confine fra Europa\Occidente e Africa) ma anche mediatica e linguistica.

Più sottile è tuttavia il sotto-testo ideologico che soggiace al concedere la foto dello sbarco, proibendo al tempo stesso la parola, l’intervista, il racconto.
Ad oggi persino i giornali più critici rispetto all’attuale governo si limitano spesso a erogare un’informazione che passa per titoli ad effetto, fatti di numeri, di cifre, accompagnati dai “soliti” scatti fotografici di sbarchi.
La censura del racconto personale fa sì che il racconto dell’identità - condizione indispensabile per l’accoglienza dell’altro - sia rimpiazzato da una forma di enumerazione\identificazione. Sul piano psicologico e sociale ciò disattiva le dinamiche dell’ascolto empatico, amplificando invece il senso di intrusione.
Scelgo di proporre la registrazione di uno sbarco, che presenta in modo diretto proprio questi fattori: la prassi dell’enumerazione, il silenzio dei migranti, e la censura del contatto verbale operata dall’autorità.
Scelgo volutamente la cornice antropologica dell’ “arte contemporanea” come contesto nel quale cercare un ascolto (che appunto è accoglienza dell’alterità) capace di una maggiore generosità del proprio tempo rispetto all’aspettativa di rapida consultazione del fruitore di un quotidiano o di un settimanale.
Ascolto, tempo, accoglienza dell’alterità, mi sembrano gli elementi necessari a neutralizzare l’emersione (sempre meno dissimulata) di un’ideologia disumanizzante e xenofoba che per creare allarmismo e consenso elettorale usa proprio il numero e il titolo ad effetto, accompagnati da istantanee di sbarchi di masse anonime.


TERRA INCOGNITA #5
Installazione fotografica


Lampedusa, 16/07/2011, la fotoreporter Daria De Benedetti mentre tenta un avvicinamento al CPT di Contrada Imbriacola
 
Con il trascorrere dei giorni sull’isola, l’obiettivo di riflettere sul confine antropologico-geografico si trovò presto raggiunto: ovunque era possibile incontrare divieti di accesso, ovunque era possibile trovare figure liminali, guardiani, a indicare implicitamente la presenza di una “soglia”. 
Tuttavia trovandomi a Lampedusa “anche” nella veste di assistente di una fotoreporter (incaricato di fare interviste che dessero voce a racconti personali, mentre volti e gesti venivano raccontati attraverso il ritratto fotografico) ho subìto pienamente il problema della censura che investe chiunque voglia fare informazione circa il destino dei migranti che sono ospitati dai centri di prima accoglienza presenti sull’isola. I contatti politici che avrebbero dovuto aiutarci si rivelarono inutili e il permesso di entrare nei centri ci fu negato. Pertanto non restava che capitalizzare la frustrazione della piccola comunità di giornalisti, fotografi, operatori delle ONG, e portare avanti un discorso meta-linguistico, o meglio, meta-giornalistico, e impostare il lavoro sulle cause e le conseguenze dell’inaccessibilità mediatica delle strutture di accoglienza di Lampedusa. In altre parole “scrivere dell’impossibilità di raccontare”.
La serie di fotografie scattate a Daria De Benedetti (TERRA INCOGNITA #5) è stata realizzata durante uno dei numerosi tentativi di avvicinare il centro di prima accoglienza di Contrada Imbriacola. Nessun tentativo andò a buon fine per via di una vigile sorveglianza militare che ogni volta impedì che ci potessimo avvicinare sufficientemente (per fortuna senza mai arrivare ad arrestarci o sequestrarci l’attrezzatura).
Non potendo in tali circostanze registrare alcun suono dei migranti, ho cercato di restituire attraverso la fotografia non tanto ciò che era racchiuso dai confini che ci erano interdetti (ovvero i migranti, gli “altri”), quanto quel movimento di avvicinamento all’alterità che in quanto fotoreporter animava Daria De Benedetti, seguirla mentre si affacciava da “dentro” sull’“oltre”. Ovvero «fotografare un fotografo» che tenta di attraversare il confine che lo separa dall’altro. Tale operazione di avvicinamento e trasgressione mi è parsa un buon paradigma fenomenologico della dinamica di avvicinamento del fenomeno al noumeno, oltre che del margine strutturale che rende il mistero profondo dell’identità altrui inaccessibile a una rappresentazione definitiva. 

TERRA INCOGNITA #6
Installazione fotografica

Luca Zanchi, Contrada Imbriacola (Lampedusa) h.17.55 del 17/07/2011
Quando buona parte del lavoro (interviste agli operatori delle ONG e registrazioni) era ormai realizzata decisi di coinvolgere i carabinieri che facevano la guardia all’unica strada di accesso al centro di prima accoglienza di Contrada Imbriacola in un’ “azione”. 
Avevo preparato in precedenza una lastra di alluminio sulla quale avevo stampato la parola DENTRO in nero su fondo bianco con banda obliqua rossa - nel linguaggio stradale si indica in questo modo l’uscita da un comune, provincia, regione o nazione. Generalmente tale segnalazione si trova abbinata all’indicazione dell’identità del nuovo territorio in cui si è entrati. In caso non avvenga tale nuova segnalazione si è legittimati a considerarsi in una terra di nessuno, in un’a-topia antropologica.
Il non essere più “dentro”, la negazione dell’essere all’interno, potrebbe di per sé significare il “fuori”, ma in termini puramente negativi, e fintanto che non si predichi l’identità del “fuori” si è relegati a tale negazione… in una condizione di “limbo”.
Questo è esattamente ciò che accade a Lampedusa, quando si sbarca ma si continua a essere circondati dal mare (come riferito dalle operatrici che ho intervistato, i bambini ospiti dell’ex base Nato Loran lamentano di non poter dormire… - dicono “portateci via, c’è troppo mare, il mare è troppo vicino, la Libia è troppo vicina”). I centri di prima accoglienza di fatto diventano strutture detentive (invece dei 3 giorni massimi voluti dalla legge si arriva a permanenze di 6 settimane), e per chi non ottiene lo status di rifugiato il destino pendente è il rimpatrio (che per molti una volta giunti nel paese di origine è sinonimo di un’ ulteriore detenzione punitiva, e spesso anche di tortura).
Lampedusa è già esser fuori dall’Africa, ma non è ancora essere dentro l’Europa, e quei diritti umani garantiti ai cittadini Europei fintanto che i migranti si trovano “dentro” ai centri di prima accoglienza restano “fuori dalla loro portata.
Decido di usare questo cartello per esplicitare la presenza di un confine fra un dentro conosciuto, il mio di cittadino europeo, e una TERRA INCOGNITA (un territorio ignoto) cui non mi è concesso dare un nome né un’identità. E decido di coinvolgerne direttamente i “guardiani” (i carabinieri) in questa operazione.
Do istruzione a Daria De Benedetti di seguirmi a distanza fotografandomi mentre con il cartello sottobraccio e un registratore nascosto in borsa imbocco la strada che porta a Contrada Imbriacola e mi dirigo verso la camionetta dei carabinieri.


Dettaglio del posto di blocco
Nessuno passa per quella strada se non per andare al centro, e senz’altro un uomo scalzo con un cartello sottobraccio seguito in fila indiana da una fotografa deve offrire una vista alquanto insolita.
Giunto al punto di blocco mi rivolgo direttamente ai carabinieri dicendo loro che sono a conoscenza del divieto di accesso, ma che sono lì per chiedere loro di indicarmi un “limite” entro il quale io possa legittimamente fermarmi a fare fotografie. Perplessi, dopo averci pensato un attimo mi indicano un punto lontano, vicino a dove avevamo parcheggiato il motorino.
Lì mi faccio fotografare con il cartello.
L’azione è di fatto molto semplice e consiste nell’esplicitazione di una prassi che appartiene a quasi tutte le aree militarizzate d’Italia (come ad esempio la discarica di Chiaiano): un’area precedentemente aperta ai civili e alla stampa viene militarizzata in virtù di uno stato di emergenza proclamato (spesso fabbricato ad hoc) e poi protratto “ad infinitum” (nel caso di Lampedusa si tratta dell’interdizione delle due strutture deputate alle operazioni di prima accoglienza, dei due depositi dei barconi sequestrati, e periodicamente di una porzione del molo di attracco). Non solo l’interno, ma i contorni stessi delle strutture/zone prescelte rientreranno così nelle normative vigenti circa il perimetro delle basi militari - inaccessibili e per legge non-fotografabili. Tuttavia se si vuole vietare che si fotografino i contorni di una base, o di un edificio, o di qualunque altro tipo di struttura, si dovranno allora porre dei blocchi che impediscano o filtrino l’accesso da MOLTO prima. A questo punto il diametro dell’area proclamata come interdetta si estende considerevolmente. Tuttavia fotografare i posti di blocco sarà ritenuto sospetto e pertanto ostacolato.
Di fatto se si chiede apertamente ai “guardiani” un “margine” dal quale sporgersi, tale margine sarà da loro collocato a sua volta a una distanza notevole rispetto al posto di blocco facendo slittare ulteriormente il “confine di fatto”. 
Questo “semplice” processo è volto a rendere manifesta l’esistenza di confini e territori sottratti alla libera informazione (nonché alla libera circolazione) coinvolgendo in tale operazione le forze dell’ordine stesse, le quali si trovano così a esplicitare l’espropriazione agìta.

CONCLUSIONI E APERTURE

Lungi dal costituire materia per sofisticati letterati ed estetologi, la riflessione linguistica è parte essenziale nell’analisi delle dinamiche connesse all’integrazione dell’alterità culturale, e di conseguenza d’importanza vitale sarebbe una comunicazione che sappia ben rispondere alle richieste adattive tanto dei migranti quanto delle comunità cui è lanciata la gravosa sfida dell’accoglienza di flussi migratori imponenti quali quelli che in modo crescente hanno investito la piccola isola di Lampedusa.
Tuttavia non intendo in alcun modo sminuire l’innegabile utilità pratica delle statistiche e dell’enumerazione, rispetto alle quali la narrazione personale deve essere sviluppata in senso complementare e integrativo, a bilanciarle ma non certo a sostituirle censurandole nel sentimentalismo.
Per questo proprio per comunicare l’urgenza di una sensibilizzazione pubblica circa il drammatico vissuto di chi tenta di attraversare i nostri confini, in conclusione, voglio avvalermi di alcuni dati numerici:
«Dal 1988 sono morte lungo le frontiere dell'Europa almeno 17.738 persone. Di cui 1.931 soltanto dall'inizio del 2011. Il dato è aggiornato al primo agosto 2011 e si basa sulle notizie censite negli archivi della stampa internazionale degli ultimi 23 anni. Il dato reale potrebbe essere molto più grande. Nessuno sa quanti siano i naufragi di cui non abbiamo mai avuto notizia. Lo sanno soltanto le famiglie dei dispersi, che dal Marocco allo Sri Lanka, si chiedono da anni che fine abbiano fatto i loro figli partiti un bel giorno per l'Europa e mai più tornati»
Segnalo infine gli articoli, le numerose pubblicazioni e il blog di Gabriele Del Grande  http://fortresseurope.blogspot.com/ come esempio significativo di giornalismo etico che nasce da un’instancabile dedizione all’oneroso compito di ascoltare, raccogliere e narrare quelle storie che rischiano di naufragare inascoltate nel mare della Storia.
Luca Zanchi
Link del sito della Fotoreporter Daria De Benedetti con foto di Lampedusa














SFIDARE IL LIMITE
Dicibilità e pensabilità non trasgressiva

-a cura di Viviana Meschesi- 


Il lavoro di Luca Zanchi e Daria De Benedetti prende le mosse da coordinate teoretiche ben precise, le quali suscitano differenti riflessioni.
Cosa significa e quali conseguenze per un'operazione non trasgressiva, nella sfida di un confine non oltrepassato e allo stesso tempo di una chiara percezione di essere in un non-luogo, terra di mezzo, dove chi esce dai suoi confini non vi ritorna?
Luca e Daria (seppur naturalmente con le dovute differenze collegate ai ruoli che essi incarnano) hanno esperito l'impossibilità del movimento sistema-trasgressione-sistema-trasgressione..., così come è stato delineato nel mio studio sull'argomento[1], ed hanno operato quindi una sorta di teo-logia negativa, nell'impensabilità della Differenza seppur paradossalmente dicibile ( ad es. nella scrittura "approssimativa" dei giornalisti a Lampedusa).
L'incommensurabilità della coppia di termini impensabilità/dicibilità, che apre una insanabile frattura nel pensiero epistemico, è stata oggetto di noti e interessanti dibattiti di filosofia contemporanea, che si accompagnano alla più ampia riflessione sulla dimensione della trasgressione. Procederò dunque ad una breve analisi del pensiero di Michel Foucault, a mio avviso rappresentante teoretico emblematico di tali prospettive.
Mi sembra opportuno a tal proposito citare un passo da "Le parole e le cose"[2] di M. Foucault: il filosofo francese riprende a sua volta Borges e dice

Questo libro nasce da un testo di Borges: dal riso che la sua lettura provoca, scombussolando tutte le familiarità del pensiero-del nostro cioè: di quello che ha la nostra età e la nostra geografia- sconvolgendo tutte le superfici ordinate e tutti i piani che placano ai nostri occhi il rigoglìo degli esseri, facendo vacillare e rendendo a lungo inquieta la nostra pratica millenaria del Medesimo e dell’Altro. Questo testo menziona “ una certa enciclopedia cinese” in cui sta scritto che “gli animali si dividono in:a) appartenenti all’ Imperatore; b) imbalsamati; c) addomesticati; d) maialini da latte; e) sirene; f) favolosi; g) cani in libertà; h) inclusi nella presente classificazione; i) che si agitano follemente; j) innumerevoli; k) disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello; l) et cetera; m) che fanno l’amore; n) che da lontano sembrano mosche”.
Commenta Foucault:
Nello stupore di questa tassonomia ciò che balza subito alla mente, cioè che, col favore dell’apologo, ci viene indicato come il fascino esotico di un altro pensiero (non occidentale), è il limite del nostro, l’impossibilità pura e semplice di pensare tutto questo.
Sebbene questa comunicazione si presenti sotto la forma adeguata ed ortodossa dell’elenco rigoroso, rispettando cioè le regole del dire, il meccanismo paradossale che presiede a tale enumerazione rende impossibile ogni capacità di sistematizzazione intesa come reductio ad unum. Il dire e il pensare sembrano dunque dissociati e l’episteme colpita da una ferita inguaribile.
Il classico tema del pensare dopo Auschwitz, voragine ab-soluta, che ci pone davanti la domanda di come pensare, di come narrare la Shoà, non avendo a disposizione che un vocabolario precedente non adatto ad avvicinare il terribile novum, motiva il noto rovesciamento foucaultiano dell’adeguatio del linguaggio all’oggetto in favore della piena autonomia dell’oggetto che ha come conseguenza il tentativo destruens del significante epistemico.
Il dire impensabile ci conduce verso una riflessione su cosa sia in questa dimensione la trasgressione. Per Foucault tale concetto, preso a prestito dal vocabolario di Battaille e che rimanda a Nietzsche, Blanchot e Klossowski, subisce una vera e propria parabola: se inizialmente va a designarsi come possibile sostituta di ciò che è la “contraddizione” per il pensiero dialettico[3] e diviene originaria di un linguaggio altro[4]-ancora non formato- ma promettente, in seguito il filosofo francese giudicherà tale concetto  troppo colluso col limite e dunque col sistema e si orienta dunque sul concetto di dehors, di fuori.
Tale posizione che egli maturerà via via nella stesura delle sue opere lo porterà tra l’altro ad avviare un asprissimo dibattito con Derrida, il quale viene giudicato come l’ultimo rappresentante di una “assai vecchia tradizione”[5] ovvero quella della filosofia e la sua ricerca dell’originario vista come relazione verticale al non-storico. Mentre tutto è storico, il soggetto-filosofo si individua in una posizione che attraverso il “commento” (modalità fondaentale della filosofia, ribadita dallo stesso Derrida[6]) ritrova l’eccedenza del significato sul significante in una “autorità senza limiti”.
Foucault non approfondirà questa parabola, ma si concentrerà poi sulla questione del soggetto:
in un linguaggio sdialettizzato […] il filosofo sa  che “noi non siamo tutto”: ma egli apprende che lui stesso, il filosofo, non abita la totalità del linguaggio come un dio segreto e onniparlante: egli scopre di avere accanto a sé un linguaggio che parla e di cui non è padrone[…]                                               […]al posto del soggetto parlante della filosofia […] si è scavato un vuoto dove si lega e si snoda, si combina e si esclude una molteplicità di soggetti parlanti[7].
Il linguaggio non più della trasgressione, ma del fuori, che si mantiene tuttavia “presso” la Differenza, si scopre “molti”. Se per Derrida, ma anche per Levinas, lo spazio non dialettico rimane presso l’unico linguaggio esistente e pensabile, quello epistemico, per sfidarlo nei suoi limiti e nelle sue potenzialità, per Foucault uscire dalla dialettica significa distruggere il luogo occupato dal soggetto-filosofo e moltiplicare tanto i soggetti significativi  che i soggetti implicati. Il soggetto non padrone del linguaggio si moltiplica e in una prospettiva che per certi versi deve ricordare la narrazione heideggeriana in In colloquio con un giapponese, si declina come orizzontalità. Foucault ripensa lo spazio della filosofia negandole ogni altezza e profondità (ovvero ogni fondamento sovra-storico) per cercare di ricollocare tale spazio nella superficie dei discorsi che si trovano nella storia.
In tale prospettiva cosa significa soggiornare sul limite, dove l’approssimarsi alla Differenza, in una prospettiva non più trasgressiva ma declinata dal dehors, è incoraggiata da un linguaggio senza pensiero, da un dicibile impensabile? E in tale rottura epistemica senza ritorno dov’è il soggetto? E quale soggetto?
Nel limite è il linguaggio, fattosi poi scrittura – dice Foucault- che per sfuggire alla morte duplica se stesso all’infinito, per lasciare traccia. Il filosofo francese, nel saggio Il linguaggio all’infinito[8] sottolinea che innanzitutto e a differenza dell’ideogramma che rappresenta immediatamente il significato, la scrittura alfabetica occidentale è già in se stessa una forma di duplicazione che ci rivela una scrittura che non significa la cosa, ma la parola, che come in un gioco di specchi, suscita il doppio del suo doppio “scoprendo” un infinito possibile ed impossibile”[9] che mantenga la parola al di là della morte, o potremmo dire al di qua del limite.

Foucault ci segnala la storia narrata da Borges “dello scrittore condannato a morte al quale Dio accorda, nell’istante stesso in cui lo si fucila, un anno di sopravvivenza per terminare l’opera cominciata; quest’opera sospesa nella parentesi della morte è un dramma in cui per l’appunto tutto si ripete, la fine (che resta da scrivere), riprendendo parola per parola l’inizio (già scritto), ma in maniera da mostrare che il personaggio che si conosce e che parla dalle prime scene non è proprio lui, ma quello che si prende per lui”[10].

In una prospettiva di permanenza nel limite senza azioni trasgressive, sfidando tuttavia la prossimità alla Differenza e propiziandone l’irruzione nel Medesimo, abbiamo dunque valuatato come si consumi un movimento orizzontale di un linguaggio pluridirezionato, che se da una parte duplica se stesso in giochi approssimativi e approssimanti scoprendo i luoghi vuoti lasciati dall’episteme, dall’altra attua una teo-logia negativa di un pensiero esteriore senza ritorno, che getta sassi verso l’in-identificabile e sfida il limite attraverso non la sua glorificazione (ottenuta nel movimento trasgressivo), ma attraverso una diversa prospettizzazione del soggetto stesso.  

Tornando brevemente sulla prima istanza – quella inerente la teologia negativa- la distinzione kantiana tra nihil negativum e nihil privativum - che ha aperto la strada al pensiero critico- si muove verso un'affermazione che non "afferma", che non be-greifen (concettualizza), in piena rottura con la transitività. E' dunque nel limite che si compie la decisione ontologica senza ritorno. Se nessun movimento dialettico, nessuna analisi del costituito, nessuna possibilità di ascolto può aiutare a pensare od esperire l'alterità, la trasgressione entra in gioco per forzare la legge a rendersi visibile, provocandola o forzandola nei suoi trinceramenti, arrivando sempre più lontano verso il di fuori in cui essa è ritirata, rovesciandosi nel contrario della punizione- visibilità della legge infranta- . L’ operazione di Zanchi e De Benedetti di affaccio sulla terra incognita - nel limite, nella zona di frontiera indicata dall'autorità- se da una parte non permette il movimento trasgressivo, suscita la problematizzazione sulla soggettività che opera nel limite, portandoci alla seconda istanza sopra enunciata.

Nel limite è infatti il soggetto a modificarsi, a dissolvere quell’identità e unicità che lo contraddistingue nella tradizione e ad affacciarsi nel Dire che sovverte la logica della relazione nell’attesa messianica dell’irruzione dell’Altro, a Lampedusa rap-presentato dallo Straniero enumerabile ma non identificabile, che trasforma il suo essere al di là in un essere al di là del soggetto stesso che cerca la prossimità con lo Straniero, estraniandolo dalla sua identità medesima. Parafrasando Levinas potremmo senz’altro dire che finalmente tale soggetto-senza principio, senza inizio –anarchia-  diviene estradizione del soggetto stesso che riposa su di sé, “estradizione da ciò che esso non ha mai assunto perché[…] è stato sensibile alla provocazione che non si è mai presentata, ma ha colpito di trauma” portando all’ “uscita del soggetto fuori dagli angoli bui del “quanto a sé” che offrono – come i cespugli del Paradiso in cui si nascondeva Adamo mentre udiva la voce dell’eterno-Dio percorrendo il giardino dal lato in cui sorge il sole- una scappatoia alla convocazione in cui si mette in moto la posizione dell’Io all’inizio e la possibilità stessa dell’origine”[11].

Dunque in questo limite, nell’affaccio sulla terra incognita, è la soggettività a mutare e l’operazione artistica, che rimette in moto il movimento di ritorno del Dire al Detto, fa dell’ ascolto, categoria squisitamente ebraica, quel tassello che solo “un’orecchio attento, incollato alla porta del linguaggio”[12] può cogliere.



[1] Si veda a tal proposito V. Meeschesi, Sistema e trasgressione. Logica e analogia in Rosenzweig, Benjamin e Levinas, Mimesis, 2010.
[2] M. Foucault, Les mots et les Choses: un archèologie des sciences humaines, Gallimard, Pasris, 1966; tr.it. Le parole e le cose, Bur, Milano, 1967.
[3] “forse un giorno essa (la trasgressione, n.d.a.) apparirà altrettanto decisiva per la nostra cultura, altrettanto nascosta nel suo fondamento, quanto lo è stata fino a poco tempo fa, per il pensiero dialettico, la contraddizione”, in Prèface a la trasgression, in “Critique”, agosto-settembre, 1963,  tr.it. Prefazione alla trasgressione, in Scritti letterari, Feltrinelli, Milano, 1971, pag. 58.
[4] “malgrado tanti segni sparsi, è quasi tutto da far nascere il linguaggio in cui la trasgressione troverà il proprio spazio”, ibidem.
[5] Foucault, Mon corps, ce papier, ce feu, in Histoire de la folie à l’age classique, Paris: Gallimard 1972, tr.it, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano, 1976, pag. 508.
[6] In Derrida, Cogito et historie de la folie, in L’escriture et la diffèrence, Seuil , Paris, 1967; tr.it. La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino, 1971,  pag. 42.
[7] Foucault, Prèface a la trasgression, op.cit., pag. 64.
[8] Apparso su Tel quel, autunno 63, tr.it. in Scritti tetterari, Feltrinelli, 1971, pag 73-85.
[9] Ibi, pag. 75.
[10] Ibidem.
[11] Levinas, Autrement qu’etre ou au-delà de l’essence, Nijhoff, 1974, tr.it. Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano, 1983, pag. 181-182.
[12] Levinas, ibi, pag. 246.
 

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